Se potesse, si comprerebbe anche una rete Rai. «Perché no?». Poi, sceso dal palco e tornato coi piedi per terra, Urbano Cairo, editore, patròn di La7, azionista di Rcs Mediagroup, è pronto a smentire, a minimizzare. «Solo una battuta, sia chiaro. Non esiste nemmeno la possibilità». Certo, ma è sufficiente per raccontare tutto del personaggio. Uno che pensa in grande e poi, con le parole, preferisce ridimensionare, e piuttosto concentrarsi su cose concrete, con dati, cifre, gergo tecnico.
Per il resto, Urbano Cairo, ospitato a Linkontro, convegno organizzato dalla Nielsen, mette in scena il suo spettacolo: uomo del fare dai vari successi (in particolare con il business dei settimanali), ristrutturatore di aziende, paladino della spending review (tanto che anche il conduttore di Servizio Pubblico Michele Santoro lo ha raccomandato al governo per fare proprio quello. Ma non senza ironia).
Anche le battute sono note, ad esempio quella dei taxi, che tira fuori ogni volta che parla: «A La7 sono entrato nel 2013: spendevano 1, 2 milioni all’anno in trasferte. Adesso sono 200mila euro. E fanno le stesse cose di prima», solo «con meno taxi», appunto. Fattura per fattura, Cairo racconta di quando ha esaminato le spese, tagliato gli sprechi, rimesso in sesto un’azienda in un settore, la tv, che non attraversa i momenti migliori, «e senza licenziare nessuno», ripete, come un mantra.
Ora, dopo l’ingresso in Rcs, vorrebbe applicare la stessa ricetta: tagliare i costi del 20% sul fatturato. «Si può fare», è convinto, ma «finora sono l’unico che lo dice e che lo vuole fare». Confronta il rapporto costi/entrate di Rcs, che si aggira intorno a 98, a quello del gruppo media spagnolo Prisa, che è invece di 85. La deduzione è logica: si può tagliare. «Se non il 20%, almeno il 10%», si scalda. E che ci farebbe? «Investimenti, idee nuove, digitale», dice.
La sua quota è del 4,6% del capitale, è entrato con 30 milioni di euro, ma – insiste – la sua capacità di azione è nulla: «Ho eletto un solo consigliere, Stefano Simontacchi, ed è indipendente». Non può decidere, solo suggerire. Terrebbe i discussi asset spagnoli del gruppo («Io, per indole, non vendo niente. A parte la pubblicità») e non si sbilancia nemmeno sul nuovo direttore del Corriere: «Persona capace, che conosce benissimo la macchina». E poi? Non si sbottona. Ride, dà manate sulle spalle.
Sulle manovre dei concorrenti, intorno a lui, evita di dare giudizi: Sky? Mediaset? Telecom? «Non lo sanno neanche loro se riusciranno a fare qualcosa». Tutte le operazioni fatte finora sono «dettate dalla riduzione delle entrate. Sono risposte alla crisi, tentativi di mantenersi sul mercato». Sulla presunta “Mondazzoli”, cioè un’unione tra Mondadori (dove aveva lavorato in gioventù) e Rizzoli, idea nata dopo l’offerta del gruppo di Segrate per acquisire Rcs Libri, non è convinto. «Insisto: meglio tagliare costi che cedere asset». Meglio pensare a La7, e alle nuove idee: o affittare parte della frequenza che non utilizza, o lanciare nuovi canali, il modus operandi messo in atto con i settimanali. Per ora, sono al vaglio entrambe le ipotesi.