L’Africa non è solo immigrazione, ma l’Italia non lo sa. Mentre da noi si discute se il Pil salirà o no dello 0,7% nel 2015, dall’altra parte del Mediterraneo ci sono Paesi che crescono del 9,45% (Sierra Leone), 8% (Ghana), 6,5% (Nigeria). Economie in via di sviluppo che potrebbero rappresentare occasioni di esportazione e investimento per le aziende italiane strozzate dall’apatico mercato interno. Se solo riuscissimo a farlo meglio.
Se n’è parlato il 25 maggio durante l’open talk nella redazione de Linkiesta. Ospiti Federico Sutti, managing director Europa e Africa di DLA Piper Global Law Firm, Lia Quartapelle, deputata Pd e segretaria della commissione Esteri, con la moderazione di Stefania Danzi, International Relations Manager di Italcementi Group.
L’assenza italiana in Africa
Nel continente africano l’Italia ha solo 19 ambasciate su 54 Stati: un terzo della Germania, metà della Francia e anche meno della Turchia, che ne conta ben 30. Numeri che spiegano la scarsa presenza italiana, anche economica, nel continente. Non a caso, laddove c’è una presenza diplomatica, le possibilità di accesso per le imprese italiane sono maggiori.
«Su oltre 135 miliardi di investimenti esteri in Africa tra il 2011 e il 2014», spiega Federico Sutti, «il 7% viene dal Nord America, il 23% dall’Europa, il 26% dall’Asia del Pacifico, il 28% dai Paesi del Golfo». E l’Italia? «L’Italia investe mediamente 2,5 miliardi, contro i 14 miliardi della Francia».
Nel continente africano l’Italia ha solo 19 ambasciate su 54 Stati: un terzo della Germania, metà della Francia e anche meno della Turchia, che ne conta ben 30
I grandi investimenti stranieri in Africa sono concentrati in primis nel settore energetico. La domanda di energia da parte delle popolazioni cresce, ma l’offerta non riesce a coprire la domanda. E gli investitori stranieri stanno puntando su questo gap con perforazioni ed estrazioni. L’altro grande bacino di investimenti sono le infrastrutture, ferrovie, autostrade, porti e aeroporti, fondamentali per Paesi come Nigeria, Angola, Mozambico, Kenya e Tanzania che sono nel pieno dello loro sviluppo economico. «Accanto a questi settori», spiega Sutti, «crescerà anche l’esigenza di prodotti e materie prime di largo consumo». Vinceranno i Paesi che sapranno approfittarne.
La componente energetica ha un peso rilevante per tutti i Paesi stranieri che investono in Africa, ma per l’Italia rappresenta quasi la metà degli investimenti e degli scambi commerciali. I grandi investitori italiani in Africa ad oggi si chiamano non a caso Eni ed Enel. Il cane a sei zampe da solo rappresenta l’80% degli investimenti italiani al di là del Mediterraneo. Sugli altri fronti, «a parte la presenza di Impregilo in Etiopia, dove non a caso si trova una delle più importanti ambasciate italiane in Africa, se guardiamo a Kenya e Tanzania, ad esempio, le imprese italiane presenti sono soprattutto ristoranti e alberghi», dice Sutti. Diverso è il caso del Nord Africa, dove invece gli scambi commerciali ed economici con l’Italia hanno raggiunto i 67,5 miliardi nel 2012 (dati Srm di Intesa San Paolo) e la presenza italiana è più significativa.
I perché della grande assenza
Se non consideriamo il settore energetico, il nostro Paese in effetti è tra gli ultimi della classe per presenza in Africa rispetto ai grandi competitor come Francia, Germania e Inghilterra (che da sola tra il 2011 e il 2014 copre l’8,5% degli investimenti in Africa). Altre due presenze economiche importanti nel continente sono quella cinese e turca. «La Turchia, in particolare, ma anche alcuni Paesi del Golfo, negli ultimi anni sono stati più presenti e aggressivi di quanto pensavamo», commenta Stefania Danzi. La Turchia ha giocato molto su un ribasso dei prezzi di vendita dei prodotti. La Cina, invece, nell’Africa subsahariana si sta aggiudicando i grandi appalti per la costruzione delle infrastrutture essenziali. I finanziamenti sono grossi, e le nostre piccole e medie imprese non riescono a competere alla pari. «L’Italia», dice Sutti, «dovrebbe puntare di più su Paesi come Mozambico e Angola, dove grazie a maggiori affinità linguistiche si potrebbe avere maggiore accesso».
“L’Italia dovrebbe puntare di più su Paesi come Mozambico e Angola, dove grazie a maggiori affinità linguistiche si potrebbe avere maggiore accesso”
«Finalmente», spiega Lia Quartapelle, «abbiamo capito che sviluppare relazioni con l’Africa deve essere prioritario rispetto ad altri continenti. Ma nello stesso tempo abbiamo compreso che non possiamo essere in tutti i Paesi africani. Si è deciso di concentrarsi su alcune aree che più ci interessano dal punto di vista strategico ed economico, cioè Corno d’Africa, Mozambico e Angola, rafforzando i rapporti politici con questi Paesi con maggiori missioni di sistema». E la Libia? «Dopo la destituzione di Gheddafi, l’Italia ha perso sicuramente terreno rispetto agli altri Paesi europei».
Le difficoltà delle imprese italiane
«Le nostre pmi sono assenti nel continente», dice Federico Sutti. «Ci sono motivi dimensionali, ma anche storici e culturali». Il primo problema sono le dimensioni delle nostre piccole e medie imprese, non in grado di giocarsela con i grandi competitor internazionali. Sia per progettualità, sia per strumenti economici a disposizione. Anche perché, spiega Federico Sutti, «al contrario delle aziende straniere, che sono già mediamente più grandi di quelle italiane, le nostre imprese agiscono in maniera isolata e non fanno sistema. E capita spesso che i piccoli imprenditori italiani, senza conoscenza del territorio in cui si stanno spostando, capitino nelle mani di pseudo affaristi rimanendo incastrati».
Un problema per le imprese italiane che vogliano investire in Africa è sicuramente la finanziabilità dei progetti. L’accesso al credito per le nostre imprese resta un limite. In Africa non ci sono grandi banche italiane. E a parte i soldi pubblici, pochi sono disposti a investire nei progetti italiani in Africa. Uno degli attori in campo è l’Ice, Istituto nazionale per il commercio con l’estero. Che però, come ricorda Lia Quartapelle, «fino al 2010 aveva un ufficio solo a Joannesburg. Oggi sono stati aperti nuovi uffici in altri Paesi, con l’idea di costruire anche una sorta di hub a cui le imprese che intendono investire in Africa possono appoggiarsi».
L’accesso al credito per le nostre imprese resta un limite. In Africa non ci sono grandi banche italiane. E a parte i soldi pubblici, pochi sono disposti a investire nei progetti italiani in Africa
Il sistema confuso di istituzioni italiane e agenzie di supporto per l’internazionalizzazione non aiuta. Se gli interlocutori da un lato sono tanti, forse troppi – tra Camere di commercio, Ice, ambasciate ma anche Comuni e Regioni -, dall’altro gli attori coinvolti non collaborano tra di loro e finiscono per essere inefficaci. «Stiamo rivedendo la funzionalità dei canali istituzionali di accompagnamento alle imprese, ma anche dei sistemi assicurativi», dice Lia Quartapelle. «Sotto revisione sono i sistemi Sace e Simest, è in corso una riforma organizzativa dell’Ice con il rafforzamento della presenza in alcuni Paesi prioritari e il ministero per lo Sviluppo economico sta lavorando per rendere più efficaci i nostri uffici all’estero per far sì che le nostre imprese possano affacciarsi a Paesi che hanno bisogno di sistemi finanziari più robusti rispetto a quelli che può offrire una banca. In questo contesto va rafforzata anche la presenza diplomatica. Anche solo la presenza delle imprese nelle missioni politiche in alcuni Paesi target è un fatto di cui le nostre aziende stanno beneficiando».
Quello che manca è anche un coordinamento tra ministero dell’Economia e ministero degli Esteri, ripetono da più parti tutti i partecipanti all’open talk. «Grazie alla riforma della cooperazione, approvata ad agosto», spiega Lia Quartapelle, «per la prima volta la direzione Africa e la direzione cooperazione si sono trovate nella stessa stanza».
La riforma della cooperazione allo sviluppo
Ad agosto, quasi in sordina, è stata approvata la riforma della cooperazione internazionale allo sviluppo. L’Italia è tra i Paesi europei che negli ultimi anni più hanno ridotto gli investimenti in cooperazione. Oggi siamo allo 0,16% del Pil, dopo che nel 2012 avevamo toccato lo 0,13 per cento. Restavano solo i contributi obbligatori alle Nazioni Unite e all’Europa, il minimo per non essere fuori legge. La riforma prevede un vice ministro per cooperazione internazionale, la diversificazione degli strumenti per la cooperazione, comprese le politiche commerciali e per l’immigrazione, una nuova Agenzia per la cooperazione e una banca per lo sviluppo tramite un accordo con Cassa depositi e prestiti.
“Buone politiche migratorie portano anche a migliori rapporti economici. Dobbiamo pensare a una migrazione e a uno sviluppo circolari”
«L’accordo tra ministero degli Esteri e Cassa depositi e prestiti finanzierà operazioni a metà tra profit e non profit», spiega Quartapelle. «Se prendiamo ad esempio l’elettrificazione delle zone rurali dell’Africa, il pubblico potrà coprire il gap di quello che non farebbe il privato e il privato mette quello che non farebbe il pubblico. Sono operazioni che portano sviluppo ai Paesi meno sviluppati, ma anche ritorni economici al nostro Paese».
Tra i soggetti coinvolti nella legge, ci sono anche le associazioni dei migranti. «Gli altri Paesi con un maggiore tradizione nella gestione dei flussi migratori hanno sfruttato la presenza di migranti anche come ponte per gli investimenti delle proprie imprese nei Paesi d’origine», dice Quartapelle. «Buone politiche migratorie portano anche a migliori rapporti economici». Cambia quindi anche la visione dell’immigrazione, da peso a risorsa: «Dobbiamo pensare a una migrazione e a uno sviluppo circolari. Cooperazione e sviluppo economico devono passare anche tra chi conosce bene il sistema italiano e anche il sistema dei Paesi di provenienza».