Le elezioni in Regno Unito in dieci numeri

Le elezioni in Regno Unito in dieci numeri

Le elezioni britanniche di giovedì 7 maggio saranno le più incerte da decenni a questa parte. Non è solo una questione di sondaggi. Il sistema elettorale e la comparsa improvvisa di necessità a cui la politica britannica non è abituata – leggi alla voce “alleanze incerte” e “coalizioni” – fanno pensare che grandi novità siano alle porte. Per districarsi in uno scenario così complicato abbiamo deciso di aggrapparci ai numeri. Eccone dieci che spiegano la novità di queste elezioni.

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È il numero dei partiti dati sopra il tre per cento nei sondaggi, con i tre più bassi che hanno in totale circa il 20 per cento dei voti – una novità assoluta. Fino alle elezioni del 2010, oltre il 90 per cento dei voti era diviso tra Conservatori, Laburisti e LibDem: ma questa volta anche gli scozzesi dello Scottish National Party, l’Ukip di Farage e i Verdi faranno la differenza in molti seggi. Solo lo Snp ha i voti abbastanza concentrati geograficamente – in Scozia, storico bastione laburista – per portare un numero significativo di parlamentari alla House of Commons, ma in molte altre circoscrizioni le tre formazioni minori toglieranno voti all’elettorato tradizionalmente laburista e/o conservatore.

326

Sono i seggi della Camera dei Comuni che un partito deve conquistare per avere la maggioranza. Il sistema elettorale britannico si basa su 650 circoscrizioni elettorali, ciascuna con circa 100 mila abitanti. In ogni circoscrizione si elegge un solo parlamentare: quello che prende più voti, nel sistema cosiddetto First-past-the-post (Fptp). È un sistema in uso dal lontano 1885 e ha (o meglio, ha avuto) l’effetto di marginalizzare i partiti più piccoli, perché chi riesce a conquistare pochi seggi è condannato all’irrilevanza nella Camera dei Comuni e quindi a essere svantaggiato nel voto successivo. Fino a ieri, ha garantito un solido bipartitismo, e dalla fine della Seconda guerra mondiale al 2010 le urne non hanno mai presentato una situazione tale da dover ricorrere ad un governo di coalizione.

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È il numero dei partiti che, secondo tutti i sondaggi, ha la possibilità di andare vicino alla fatidica soglia dei 326. Per questo, da mesi l’opinione pubblica britannica sente parlare di cose che fino a poco tempo fa sembravano limitate alle democrazie continentali: “alleanze” e “coalizioni”. Già nel 2010 Cameron dovette accordarsi con i LibDem di Nick Clegg per governare, ma questa volta i giochi sono ben più aperti. L’Ukip si è detto disposto ad allearsi con Cameron, se questi acconsentirà a fare subito un referendum sull’uscita dall’euro; lo Snp invece guarda più naturalmente al Labour, che finora ha sempre rifiutato la possibilità (il perché lo vedremo più avanti).

Se i LibDem otterranno un risultato particolarmente misero, verrà meno a entrambi i partiti l’alleato più naturale: e le cose potrebbero farsi molto complicate. L’Economist ricorda la possibilità che emerga uno scenario “italiano”, un debole governo dalla maggioranza incerta. Con l’aggravante che nel 2011 il Fixed-Term Parliaments Act ha “blindato” la durata del Parlamento a cinque anni, a meno che non lo richiedano due terzi dei parlamentari (o un governo perda un voto di fiducia e non sia rimpiazzato in due settimane). Potrebbe emergere quindi persino un governo di minoranza «che combinerebbe probabilmente poco ma si trascinerebbe per un tempo sorprendentemente lungo»…

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Sono i punti percentuali che, nei sondaggi degli ultimi mesi, i conservatori di Cameron hanno recuperato sui laburisti di Ed Miliband, dati per favoriti la scorsa estate. Entrambi sono dati oggi intorno al 34 per cento, con una leggera propensione a favore dei conservatori nell’assegnazione dei seggi: le previsioni li danno intorno ai 280.

Non hanno aiutato lo storico partito di centrosinistra britannico la lunga serie di gaffes del suo leader. L’ultimo non più tardi di domenica, quando Miliband ha scolpito le sue promesse elettorali su un monolite di pietra di due metri e mezzo – e, non pago, ha promesso di piazzarlo a Downing Street in caso di vittoria – attirando una derisione quasi unanime e l’inevitabile serie di meme da Odissea nello Spazio alle Tavole della Legge.

Ma il Labour può contare su un voto più equamente distribuito tra i collegi, che alla fine potrebbe favorirlo nel numero di eletti: nel 2005, con il 35 per cento dei voti, i laburisti ottennero una larga maggioranza di 64 parlamentari alla Camera; nel 2010, con il 36 per cento, i conservatori finirono 20 seggi sotto la soglia sufficiente per governare.

2017

È l’anno in cui Cameron ha promesso di tenere un referendum sulla permanenza o meno nell’Unione Europea. Ha spiegato che, se vincerà le elezioni, andrà in Europa a negoziare condizioni diverse per la permanenza del Regno Unito nell’Ue, soprattutto in tema di immigrazione all’interno dell’unione, di legislazione sul lavoro e sulle imprese. Se le otterrà il referendum si farà lo stesso, ma il suo partito farà campagna per restare nell’Ue. Le alleanze a cui potrebbe essere costretto Cameron, però, metteranno alla prova i suoi piani: i LibDem sono tradizionalmente molto più europeisti dei Tories e non vedono l’iniziativa di buon occhio; l’Ukip vorrebbe farlo subito, senza passare dai negoziati con Bruxelles.

Nella campagna elettorale, ad ogni modo, non si è parlato granché di Europa. L’editorialista del Financial Times Wolfgang Münchau ha notato che il tema è quasi assente dal programma del Labour e quel poco che c’è suonerebbe assai euroscettico agli orecchi di un elettore di centrosinistra “continentale”.

Chiunque vinca dovrà prendere presto decisioni importanti per il futuro del Regno Unito nell’Ue, se davvero si andrà nella direzione di una maggiore integrazione economica e politica tra gli stati membri: e gli indizi che abbiamo finora fanno concludere a Münchau che «da una prospettiva pro-Ue è difficile vedere qualsiasi conseguenza positiva dalle elezioni di giovedì».

59

Il numero di seggi che vengono assegnati in Scozia e che andranno, molto probabilmente, in larghissima maggioranza allo Scottish National Party. Il referendum per l’indipendenza appoggiato dal partito, e perso con il 55 per cento dei voti contro il 45, è stato in realtà un ottimo risultato perché ha cementato l’elettorato e l’ha unito intorno a un’idea chiara. In breve tempo lo Snp ha messo insieme una formidabile macchina elettorale e ha quadruplicato gli iscritti, arrivati a oltre 100 mila.

Il Labour finora ha sempre escluso un’alleanza con lo Snp (da parte sua, molto più possibilista): dopotutto, lo Snp ha appena promosso un referendum per staccarsi dal Regno, il che non lo rende molto simpatico agli inglesi d’Inghilterra, ed è un diretto concorrente del Labour per il voto degli scozzesi; d’altra parte, il Labour ha fatto campagna per il “no” al referendum indipendentista.

Ci sono anche altre divisioni regionali emerse negli ultimi tempi: il Labour nel 2010 è risultato essere il partito delle grandi città e del nord – economicamente più in difficoltà – mentre il sud più ricco e le campagne tendono a votare per i conservatori.

37 per cento

È la percentuale a cui, nei sondaggi, è dato l’Ukip di Nigel Farage a Clacton, nel sudest dell’Inghilterra: la circoscrizione elettorale in cui molto probabilmente otterrà il risultato migliore. A livello nazionale, i sondaggi danno l’Ukip intorno all’11 per cento. Il partito euroscettico e anti-immigrazione era risultato primo alle elezioni europee di un anno fa (con il 26,6 per cento a livello nazionale) ma rischia di ottenere solo una manciata di seggi alle prossime politiche, dato che il suo voto è molto distribuito e quasi da nessuna parte può ragionevolmente sperare nel primo posto.

Clacton, nell’Essex, fa eccezione: il motivo è che ha una concentrazione unica nel Regno Unito dell’elettorato-tipo dell’Ukip. Ovvero un bianco anziano, nato in Inghilterra, più interessato ai temi quasi unici della campagna elettorale di Farage – l’Unione Europea e l’immigrazione – piuttosto che alle preoccupazioni più diffuse nell’elettorato britannico in generale – come economia, istruzione e disoccupazione.

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Sono i milioni di sterline (circa 4 milioni di euro) spesi di tasca propria da un miliardario britannico, Lord Ashcroft, per fare sondaggi sul risultato delle elezioni. Il motivo più probabile, a quanto dicono i media britannici? Era curioso di sapere in anticipo da che parte andava l’elettorato britannico. Fino a poco prima delle elezioni del 2010, il 69enne Lord Ashcroft – che deve la sua fortuna, stimata in 1,1 miliardi di sterline, a imprese di pulizie e dei servizi – era il vicepresidente dei conservatori britannici, dopo una ventennale carriera nel partito. Ha mantenuto la sua tessera e le sue convinzioni, come dimostra il nome del suo sito di commento politico, ma si è dimesso poche settimane fa dal suo seggio alla Camera dei Lord.

Abbandonando l’approccio tradizionale dei sondaggisti britannici, Lord Ashcroft ha adottato una strategia particolare: ha condotto sondaggi in oltre cento singoli collegi, invece di concentrarsi sulle regioni, più ampie. Lo ha fatto in modo molto professionale, a detta di tutti gli esperti, guadagnandogli soprannomi come the Pollfather, Lord of the Polls ePollster-in-Chief, oltre a un grande spazio sui media britannici. I suoi sondaggi si possono trovare qui.

26,1 per cento

La percentuale di donne candidate sui 3971 totali che concorreranno per un seggio. Solo due partiti hanno una leader, i Verdi di Natalie Bennett (che difficilmente porteranno più di un parlamentare alla Camera dei Comuni) e lo Snp di Nicola Sturgeon. Nella classifica dei parlamenti nazionali per percentuale di donne, il Regno Unito al momento non se la cava molto bene: è al 57esimo posto con il 22,8 per cento, sotto la Grecia e sopra Israele, ma dietro tutti i principali Paesi europei (l’Italia è al 32esimo posto con il 31 per cento).

65 per cento

L’affluenza alle elezioni del 2010, un aumento del 4 per cento circa rispetto al 2005. Negli ultimi anni il numero di votanti britannici ha avuto alti e bassi, ma il fatto che questa tornata elettorale sia così incerta porterà probabilmente a un aumento del numero di votanti effettivi.