«Le nostre imprese dalla concorrenza internazionale si difendono da sole, con l’innovazione, senza chiedere protezioni dallo Stato che finiscono comunque per essere aggirate». Il tono di Aldo Tempestini non ha un filo di arroganza, solo di sicurezza. È il direttore del Tex Club Tec, un’associazione di aziende che lavorano nel settore del tessile tecnico. Parla dalla Fiera di Francoforte, dove è in corso un’esposizione a due teste: da una parte i produttori di tessuti tecnici (Techtextil), dall’altra quella di chi fabbrica i macchinari del tessile (Texprocess), il mitico meccano-tessile che è sempre ai primi posti nelle classifiche d’esportazione.
«Quello dei tessuti tecnici è un settore che dalla concorrenza internazionale si difende da solo, con l’innovazione»
Anche dalla seconda testa della fiera arrivano parole che danno fiducia. «Le nostre aziende sono piccole ma investono tantissimo, più del 5% del fatturato va in ricerca e sviluppo – dice un rappresentante dell’associazione di categoria Acimit -. Sono grandi la metà di quelle tedesche, ma hanno un fatturato ben maggiore della metà, perché hanno qualcosa che permette loro di essere sempre avanti: la massima flessibilità. È la valigetta in mano degli agenti italiani che permette di sopravvivere a un anno in cui la Cina è scesa del 25 per cento e che permetterà loro di rafforzarsi anche di fronte all’Industria 4.0». In tre giorni di incontri, numeri e storie che spesso sono al limite dell’incredibile – come quella delle fabbriche italiane tascabili trasportate dai profughi siriani – la convinzione è che per capire l’essenza del Made in Italy sia necessario ritrovare i nostri imprenditori all’estero, quando i loro pregi, ma anche i loro difetti, a partire da un inglese zoppicante, emergono in tutta la loro chiarezza.
(F. Patti / Linkiesta)
Il Rinascimento del tessile tecnico
C’era una volta il tessile che serviva solo a fare vestiti, tovaglie, lenzuola, tende e tendoni vari. Quel tessile ha gradualmente abbandonato l’Italia, lasciando sul campo un terzo dei suoi operai, scesi da 700mila a circa 460mila. Oggi sempre più aziende sono riuscite a cambiare pelle, e sopravvivere, passando al “technical texile”, il tessile tecnico che si è fatto sempre più tecnologico. Chilometri di fibre tessili collegate a sensori possono segnalare fratture in ponti, linee ferroviarie, dighe. Fossero state installate decenni fa, avrebbero permesso agli abitanti dell’Aquila di sapere subito se le loro case fossero state lesionate dal terremoto. Una città morta sarebbe probabilmente restata viva.
Un progetto italiano utilizzerà dei nuovi tessuti per portare alle isole acqua dolce dentro un pallone. Un altro servirà a neutralizzare le bombe nelle valigie in aereo
I nuovi tessuti in ambito medicale possono essere usati per effettuare un elettrocardiogramma di lunga durata a un paziente a casa. Possono elettrostimolare i muscoli degli atleti quando si allenano o stanno in poltrona. Possono trasmettere segnali tattili alle dita, attraverso speciali guanti, a non vedenti, o aiutare nella riabilitazione i cardiopatici. In campo ambientale un progetto italiano (seguito dalla società di consulenza D’Appolonia) utilizzerà dei nuovi tessuti per portare alle isole minori duemila metri cubi di acqua dolce alla volta, con un pallone di 36 metri di lughezza – estensibili fino a 100 metri – trainato da un semplice peschereccio. Un altro, sempre italiano, sarà usato per imballare i bagagli nelle stive in aereo e neutralizzare eventuali esplosioni di bombe.
Aldo Tempesti, direttore del Tex Club Tec, alla Techtextil-Texprocess di Messe Frankfurt (F. Patti / Linkiesta)
Un’occasione presa
Tempesti, Tex Club Tec: «Fino a 15 anni fa tutti pensavano che il tessile fosse un settore senza possibilità di innovazione. Ora stiamo assistendo a un vero Rinascimento»
Il tessuto, spiega Tempesti, è diventato il substrato ideale e flessibile per l’integrazione di tecnologie come le fibre ottiche, le fibre al plasma e le nanotecnologie. Questa evoluzione tecnologica è stata soprattutto un’opportunità per le imprese. Con una competizione sui mercati globali divenuta insostenibile per i prodotti a basso costo, i tessuti tecnici hanno permesso di realizzare prodotti ad alto valore aggiunto. «Sono tutti prodotti per nicchie di mercato, ma queste nicchie sono tantissime e messe insieme creano un grande mercato. Sono inoltre prodotti che prevedono un rapporto stretto tra fornitori e clienti e quindi tutelano da fughe improvvise».
Dimostrazione di un tessuto, derivato da ricerche della Nasa, capace di assorbire il calore e prevenire la sudorazione dei lavoratori (F. Patti / Linkiesta)
Dopo decenni di calo, aggiunge Tempesti, la svolta si vede e oggi in Italia sono stati recuperati i livelli di fatturato pre-2009, con un’occupazione pari a circa 30mila dipendenti. Anche il 2015, conclude, finirà in crescita, grazie all’export, che nel settore pesa per poco meno del 40 per cento e si dirige verso Europa, Stati Uniti e in misura minore Asia. Lo stand del Tex Club Tec raggruppa non a caso una ventina di aziende, tutte sotto il cappello dell’Ice. L’Istituto commercio estero ha allestito e organizzato gli spazi in collaborazione con le associazioni, sia nel caso del Tex Club Tec che in quello dell’associazione dei produttori di macchinari per il tessile Acimit. Nel mondo l’aumento dei ricavi procede a una velocità di crociera variabile tra il 3 e il 6 per cento all’anno. Da un valore globale del settore di 160 miliardi di dollari nel 2014, nel 2018 si arriverà a 200 miliardi, prevede uno studio di Commerzbank.
Il boom di moda, sport, mobilità
La moda è stata un’alleata del tessile tecnico, grazie all’ibridazione tra fashion e mondo del running
Oggi il tessile tecnico pesa in Europa per circa il 30% della produzione di tessile, con una percentuale maggiore dove la moda si è sfilacciata prima, come la Germania. Così non è stato in Italia, dove il peso dei tessuti tecnici vale tra il 10 e il 15% di quello totali e la moda è stata, piuttosto, un’alleata. Basta dare un’occhiata alle linee delle sfilate di abiti e scarpe dell’inverno passato: l’esplosione dell’ibridazione tra fashion e sport – a causa dell’estrema popolarità del running – ha comportato l’uso di molti tessuti tecnici nei prodotti delle griffe, da Dior a Pinko a Miu Miu. Il resto lo fanno le richieste del mercato per tessuti in fibre riciclate o, più spesso, per prodotti antibatterici o anallergici.
Lo sport è tra i driver della crescita del tessile tecnico (F. Patti / Linkiesta)
C’è poi lo sport a dare un contributo fondamentale. In occasione di Olimpiadi o campionati mondiali si impiegano anni e milioni di euro in ricerca per mettere a punto abiti che aumentano le performance, come i costumi che scivolano sull’acqua e che hanno permesso di infrangere record su record nel nuoto. Tutti questi investimenti hanno poi una ricaduta sul mercato di massa, dove si scelgono soluzioni meno estreme ma pensate con l’approccio delle divise professionistiche.
Anche se si allarga lo sguardo al mondo, lo sport è uno dei “driver” della crescita, spiega a Linkiesta Olaf Schmidt, vice-presidente della fiera Techtextil-Texprocess di Messe Frankfurt, soprattutto perché si legherà alla crescita delle tecnologie che permettono di collegare i vestiti ai dispositivi elettronici. Le altre spinte alla corsa del settore vengono dai trasporti, automobili e aerei in particolare, che oggi pesano per il 22% delle vendite totali di tessile tecnico; e dall’industria, che richiede sempre più la sostenibilità offerta da questi prodotti in confronto a quelli usati in precedenza. Se invece si scruta l’orizzonte, saranno il medicale e la protezione dei lavoratori le stelle che si metteranno a brillare.
Aziende in trasformazione
Tempesti: ««La maggior parte delle società si sta evolvendo, o nella sua interezza o creando spin-off. In altri casi ci sono start up che nascono da un approccio teorico-scientifico»
«Le aziende italiane stanno investendo tantissimi soldi per essere leader nel settore, dove sono già forti». Il riconoscimento viene ancora da Olaf Schmidt e trova corrispondenza nelle storie delle aziende che hanno saputo reinventarsi. Come la Bozzetto di Filago, Bergamo (zona sede di molte aziende del comparto), che ha cento anni di storia ed è stata sempre attiva come fornitrice di chimica per il tessile industriale, prima di dedicare una buona parte della produzione ai tessuti tecnici. «È stata una questione di vision, abbiamo capito che dovevano rendere il prodotto sempre meno una commodity e che il mercato aveva bisogno di prodotti con componenti tecniche, lavorabili, ma anche belli», dice Filipppo Pampagnin, che per la società cura lo sviluppo strategico dedicato al tessile tecnico.
Esterno della Fiera di Francoforte (F. Patti / Linkiesta)
Altre, come la Stefano Mardegan di Milano, sono state in grado di prendere per tempo il trend ambientalista. Grazie al lavoro di un tecnico esterno l’azienda ha messo a punto un metodo per la “spalmatura” dei tessuti (che serve per creare molte superfici, dalle tensostrutture alle tende fino alla finta pelle dei salotti) che non utilizza i solventi. «La lavorazione si potrebbe fare anche in cucina, non ci sono emissioni tossiche. Lo vendiamo allo stesso prezzo dei prodotti tradizionali e risparmiamo sugli abbattitori di inquinanti, che consumano molta acqua ed energia», dice il direttore commerciale Luca Barbero. «La maggior parte delle società si sta evolvendo, o nella sua interezza o creando spin-off – dice Tempesti -. In altri casi ci sono start up che nascono da un approccio teorico-scientifico, basato sulla conoscenza di nuovi materiali come il grafene o il plasma, o delle nanotecnologie».
La battaglia dell’associazione è tutta nella necessità di portare le conoscenze delle università nelle imprese. Per questo sta lavorando alla “Piattaforma Tecnologica Italiana”, assieme al Sistema Moda Italia e ai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Istruzione e Università.
L’industria 4.0 è già qui
«Nel 2014 siamo cresciuti del 55%, esportiamo il 98% della produzione. Ma non in Cina, piuttosto nei Paesi confinanti del Sud-Est asiatico». Sentire la MorganTecnica, società di Adro (Brescia) che produce macchinari per l’industria tessile (caricatori, etichettatrici, stenditori, macchine per il taglio), è un punto di partenza per farsi un’idea dell’identikit delle aziende italiane del meccano-tessile. Le altre magari sono più piccole, ma l’approccio è questo. L’80% della produzione complessiva delle 300 aziende del settore (molte delle quali sono in Lombardia) è destinato all’esportazione. Nel 75% dei casi sono aziende con meno di 50 dipendenti, che, ammettono dall’associazione di categoria Acimit, proprio per questo hanno subito di più dei grandi gli alti e bassi del mercato. Così ci sono state delle M&A (fusioni e acquisizioni) dettate soprattutto dalla raccolta di feriti sul campo che da lungimiranti operazioni di sostegno reciproco. Tuttavia, aggiungono dall’associazione, per quanto piccole le aziende del meccano-tessile «sono altamente innovative, investono più del 5% in ricerca e sviluppo, una percentuale alta. Davanti a noi nel mondo ci sono solo, per fatturato complessivo, la Germania e la Cina, che però fa prodotti ancora abbastanza scadenti e destinati solo al mercato interno».
Dimostrazione della Tajima, uno dei maggiori produttori al mondo di macchine per cucire (F. Patti / Linkiesta)
La Cina è stata il vero problema del meccano-tessile. Per anni il mercato ha continuato a crescere. Poi, nel 2014, c’è stato un crollo del 25 per cento
La Cina è stata il vero problema di chi lavora in questo settore. Per anni il mercato ha continuato a crescere, diventando di gran lunga il primo Paese per rilevanza delle nostre esportazioni. Poi, nel 2014, c’è stato un crollo del 25 per cento. Un crollo del mercato che non sorprende più di tanto chi sta studiando la Cina: il Catalogo sulle linee guida degli investimenti esteri viene regolarmente aggiornato e prevede prima un’apertura agli investitori stranieri in determinati settori. In seguito, quando il know how è stato acquisito, può avvenire una chiusura anche repentina. «La Cina rimane il primo mercato e sarà ancora destinazione di prodotti che permettono risparmi di costi e basso impatto ambientale – dicono dall’Acimit -. Ma la vera meta in cui investire sono i Paesi in cui si sta sviluppando il tessile per le delocalizzazioni delle imprese cinesi: Laos, Cambogia, Etiopia. In questi posti i nostri agenti con la valigetta fanno ancora la differenza».
4M Plants: «Abbiamo dei clienti che lavoravano in Siria. Quando è scoppiata la guerra hanno potuto caricare tutti i macchinari compatti sul camion e hanno cominciato a produrre in Egitto»
Quanto possa fare la differenza una produzione italiana lo raccontano Riccardo De Servi e Paolo Stellini, delle società collegate 4M Plants e Stellini di Magnago (Milano). «Produciamo piccoli impianti di filatura. Quelli corrispettivi tedeschi sono molto più alti e richiedono 4-6 mesi per il montaggio. Noi abbiamo realizzato dei macchinari che stanno su un container e una volta usciti sono pronti per funzionare in pochi minuiti. È qualcosa di perfetto per i nuovi mercati in Africa». Ma non solo: «Abbiamo dei clienti che lavoravano in Siria, dove c’è una tradizione antichissima nel tessile, con dinastie di imprenditori. Quando è scoppiata la guerra hanno potuto caricare tutti i macchinari sul camion e hanno cominciato a produrre in Egitto. In seguito sono scappati anche da lì e sono finiti in Turchia, al confine con la Siria». Le macchine sono controllate a distanza e questo non è un particolare da poco.
Lo stand dell’associazione Acimit alla Techtextil-Texprocess della Fiera di Francoforte (F. Patti / Linkiesta)
Tra i capisaldi dell’Industria 4.0 ci sono la flessibilità e la personalizzazione. Un’occasione che gli imprenditori italiani possono cogliere
Tra i capisaldi dell’Industria 4.0, di cui in Germania tutte le aziende hanno chiarissimi i contorni, c’è il tema del controllo a distanza dei macchinari, della comunicazione tra le macchine e i sistemi di cloud computing, l’aggiornamento degli impianti che possono cambiare produzione velocemente. Il risultato è un processo che porta ad avere fabbriche più piccole, produzione a piccoli lotti, personalizzazione spinta. Serve molta tecnologia, ma anche tanta flessibilità. Quella che agli italiani, per forma mentis e struttura aziendale, non manca. Serve però avere chiaro quale sarà il terreno di gioco e attrezzarsi, perché di musei delle industrie ne abbiamo già troppi.