Un fondo di investimento compra un’azienda storica dell’arredamento italiano. Letta di sfuggita, una notizia così può apparire una storia già vista e scoraggiante: locuste che raccolgono il relitto di marchio famoso per rivenderlo un paio di anni dopo, non importa come o a chi. Il riflesso condizionato non potrebbe però essere più fuorviante nel caso della storia della Gervasoni di Udine, da qualche giorno entrata a far parte della nuova società Italian Design Brands. Qui si parla di un’azienda in utile che incontra degli investitori che hanno uno sguardo di lungo periodo e una visione per nulla scontata: creare un polo del design italiano con il quale espandersi in Italia e all’estero, a partire dagli Stati Uniti.
La Gervasoni spa è stata fondata nel 1882, in provincia di Udine. Nel 2014 ha avuto un fatturato di 24 milioni di euro, in crescita del 5% rispetto al 2013, e un utile netto di 2,5 milioni di euro. Anche andando a spulciare il bilancio 2013, si vede che l’esercizio si era chiuso in utile (1,8 milioni, a fronte di un fatturato di 18,7 milioni), così come nel 2012 (1,2 milioni di euro, a fronte di 16 milioni di ricavi). L’unica nota non positiva è il riferimento a un contratto di solidarietà attivato negli anni precedenti, ma non più in essere. Questa società in salute, con 85 dipendenti totali, decide però che non è lungimirante sedersi sugli allori.
Giovanni Gervasoni: «L’azienda ha avuto i suoi anni migliori della sua storia centenaria tra il 2013 e il 2014. È quando le cose vanno bene che bisogna guardarsi intorno»
Ai vertici ci sono due fratelli, Giovanni e Michele Gervasoni, che cominciano un anno fa a cercare l’occasione per fare un salto di dimensioni, anche a costo di perdere il controllo sulla società. Un’eresia nelle tipiche aziende italiane, che a cedere il timone non ci pensano se non quando sono ridotte in ginocchio. «L’azienda ha avuto i suoi anni migliori della sua storia centenaria tra il 2013 e il 2014 – dice Giovanni Gervasoni a Linkiesta -. È quando le cose vanno bene che bisogna guardarsi intorno. Abbiamo pensato che, per i prossimi 5-8 anni, sarebbe stato più interessante muoversi in un contesto più ampio».
Nell’autunno scorso si rivolgono all’advisor storico della famiglia, la Dvr Capital guidata da Carlo Daveri, che li mette in contatto con un fondo di investimento, il Private Equity Partners fondato da Fabio Sattin e Giovanni Campolo, e con Paolo Colonna, partner di Premira, che si muove con capitali propri. Vengono poi mobilitati altri 14 soci e creata la Italian Design Brands. I due fratelli vengono messi ai vertici del nuovo soggetto, Giovanni come presidente e Michele come consigliere delegato.
«Non è qualcosa che si vede spesso, in Italia – commenta Carlo Daveri -. I fratelli Gervasoni hanno ritenuto che fosse la migliore scelta per la loro crescita, perché sanno che la logica di questi investitori è di lungo periodo. Entrambi [Ppe e Colonna, ndr] avevano già una lunga esperienza in acquisizioni, con Colonna in particolare che era già stato azionista di marchi come Hugo Boss e Valentino».
Carlo Daveri: «La liquidità in Italia c’è: piuttosto che scappare, perché non investire il capitale in aziende che qui hanno un indotto?
Che cosa vuole diventare ora questo soggetto? L’obiettivo, spiega Daveri, è arrivare in due-tre anni a un gruppo da circa 100 milioni di euro, attraverso sia una crescita interna sia nuove acquisizioni, anche all’estero, a partire dagli Usa. Gervasoni conferma: «Stiamo parlando con i soci da qualche mese di quali aziende possano essere target. Alcune le abbiamo già contattate». Tra le priorità, aggiunge, c’è il “contract”, cioè un tipo di appalti integrati che richiede (soprattutto in settori come quello dell’intrattenimento, quali cinema o teatri) un’offerta integrata da parte di operatori con specializzazioni diverse. «Vogliamo puntare agli Stati Uniti – aggiunge Gervasoni – anche con acquisizioni. È meglio esserci con una società che con un semplice ufficio».
Se l’obiettivo è l’espansione all’estero, i capitali sono tutti italiani. Dopo le acquisizioni estero su Italia dell’anno scorso (su tutte quella di Poltrona Frau da parte dell’americana Haworth), il 2015 ha visto diverse operazioni tutte nazionali: Boffi ha comprato De Padova, la Zordan ha comprato il 70% della Ronchetti di Cantù, poco prima la milanese Aliante aveva comprato la Faram.
La mossa dell’italianità viene rivendicata da Daveri. «Abbiamo spinto molto perché fosse un’operazione italiana – dice -. Sta agli operatori come noi aiutare iniziative di questo tipo. Gli imprenditori magari non sanno che ci sono opportunità». Ma è davvero importante che si mantenga una proprietà italiana? «Prima di tutto, come sempre, ci deve essere un interesse aziendale – risponde Daveri -. A parità di condizioni, un’iniziativa di questo tipo rientra in una logica di Paese. La liquidità in Italia c’è: piuttosto che scappare, perché non investire il capitale in aziende che qui hanno un indotto? Se posso contribuire allo sviluppo del Paese perché no?» .