«Tagliamo l’immigrazione, così i nostri bambini possono tornare a giocare nelle strade». È il 1° aprile 2015, trentasette giorni dalla data delle elezioni politiche. Alle spalle di Nigel Farage, leader del partito euro-scettico Ukip, un cartellone rappresenta tre grandi scale mobili appoggiate alle Bianche Scogliere di Dover, la «via verso l’Europa», come la definisce l’ex trader, che da lì parla agli elettori dell’area sud-est, suoi più strenui sostenitori. «L’immigrazione è tre volte più alta di quel che affermano i Tories», si legge sul manifesto. Farage indossa il solito barbour verde, e una camicia a quadri rossi che lo avvicinano a quel ceto medio bianco britannico di cui interpreta le paure.
Nigel Farage presso le scogliere di Dover, Kent, Sud-est Inghilterra. Dan Kitwood/Getty Images
Un’immagine chiave per capire l’UK al voto oggi. Soprattutto per capire cosa accadrebbe se Cameron vincesse e l’idea di indire un referendum sull’uscita dall’Unione Europea diventasse realtà.
Molti studi hanno mostrato che l’immigrazione fa crescere il Pil britannico. Ma la retorica anti-migranti resta calda
Perché negli ultimi mesi, la stampa britannica e i centri di ricerca hanno fatto molto per provare gli effetti tutt’altro che negativi dell’immigrazione, soprattutto europea (quella sotto attacco), nel Regno Unito: crescita del Pil, innovazione, maggiori entrate fiscali. Ma nonostante questo, e sebbene superata dai temi dell’austerity e della riforma del Servizio sanitario, la retorica anti-immigrati resta calda e probabilmente non cesserà dopo il 7 maggio.
L’effetto sul Pil
Lo scorso novembre 2014 uno studio dell’University College of London (UCL) ha dimostrato che gli immigrati dall’Unione Europea hanno contribuito per 20 miliardi di sterline alle finanze pubbliche britanniche. Non solo. Chi viene da fuori paga più in tasse di quanto non riceva in aiuti sociali. Gli immigrati arrivati in Uk tra 2000 e 2011, si legge nello studio, hanno il 43% in meno delle probabilità di ricevere aiuti di stato o sgravi fiscali rispetto ai nativi britannici. E il 7% in meno delle probabilità di accedere all’edilizia popolare. Contribuiscono enormemente al Pil anche perché hanno tassi di occupazione piuttosto alti: 81% per i provenienti dall’Europa centrale e orientale (gruppo A10), 70% per i Paesi EU-15, esattamente come i nativi.
Il 40% del personale che lavora per l’NHS non è nato nel Regno Unito
Attorno al 20 marzo l’Office for Budget Responsibility (OBR, istituto indipendente di analisi delle finanze pubbliche britanniche) alzava di 0,6 punti percentuali le prospettive di crescita del Paese per il 2019-2020. E lo faceva perché l’immigrazione aveva toccato quota 298.000 nel settembre 2014, rispetto ai 210.000 migranti presenti in Inghilterra solo un anno prima. La cosa lasciava presagire che negli anni a venire le persone provenienti da oltre UK sarebbero continuate a crescere, facendo salire il Pil.
Il servizio sanitario nazionale
Alla fine dello stesso mese il Guardian, rispondendo a chi considerava gli immigrati un peso insostenibile per il servizio sanitario britannico (NHS), forniva i dati del numero di migranti che vi lavorano, sostenendolo, anziché appesantendolo: costituiscono l’11% dei dipendenti del servizio sanitario, e il 26% del numero di medici. Se si aggiungono anche gli assistenti, il 40% del personale che lavora per l’NHS non è nativo britannico.
«Lavoro duro e per tante ore perché migliaia di persone che ricevono sussidi dipendono da me», si legge sul cartello di un pub di Bilstone, West Midlands. Christopher Furlong/Getty Images
Il costo delle case
Un altro studio dell’UCL, infine, ha mostrato l’inconsistenza di chi crede che l’immigrazione europea faccia crescere il costo delle abitazioni, tema forte della campagna elettorale. «Gli studi sul Regno Unito dimostrano che l’immigrazione abbassa i prezzi delle case», scrivono.
Piuttosto, spiega lo stesso studio, come in molti altri Paesi Oecd, anche nel Regno Unito gli immigrati hanno più probabilità dei nativi di aprire nuove attività, portando innovazione, commercio e imprenditorialità.
Una questione di identità
Ma nonostante tutto questo, se vincesse David Cameron, la promessa di ridurre gli sgravi fiscali e gli aiuti sulla casa agli immigrati che sono in UK da meno di quattro anni tornerebbe alla ribalta. Così come l’espulsione di cittadini Ue che non hanno un lavoro dopo sei mesi di permanenza sul suolo britannico. I laburisti guidati da Ed Miliband propongono anch’essi maggiori controlli e, ai quattro anni di permanenza posti come discrimine da Cameron, replicano con due.
Londra è la prima regione in cui i bianchi britannici sono diventati una minoranza
Perché dunque nonostante gli immigrati rendano il Paese più ricco, la retorica anti immigrazione attecchisce in UK?
La tazza del Labour che propone la retorica anti-immigrazione. Screenshot dal Guardian
«Non è solo una questione di soldi», aveva risposto tempo fa Nigel Farage in un’intervista a Radio Four. «Ci sono cose più importanti del denaro. Se mi chiedi: “Vuoi vedere arrivare altri cinque milioni di persone? Se ciò accadesse saremmo tutti un po’ più ricchi”. Sai cosa risponderei? Direi che preferirei non fossimo un po’ più ricchi. L’aspetto sociale di questo fenomeno conta di più della pura economia di mercato».
È l’identità del popolo britannico, soprattutto bianco, che inizia ad essere in crisi
Non è dunque questione di soldi, ma di identità. In un Paese in cui l’immigrazione netta è cresciuta vertiginosamente, passando dai meno di 100.000 immigrati del 2000 ai 300.000 del 2014, è l’identità del popolo britannico, soprattutto bianco, che inizia ad essere in crisi.
Secondo il Censo 2011, solo il 45% della popolazione londinese (3,7 milioni) si descrive come «bianca britannica». Meno della metà. Nel 2001, era il 58%. Londra, da quell’anno, è la prima regione in cui i bianchi britannici sono diventati una minoranza.
Ma la diversità cresce anche nel resto del Paese. Nelle aree di Inghilterra e Wales, i «bianchi britannici» sono scesi dall’87,5% del 2001 all’80,5% del 2011. Più della metà dei 7,5 milioni di nati all’estero che al 2011 risiedono in Inghilterra e Wales, sono arrivati negli ultimi 10 anni.
Il vecchio impero, ormai quasi disinteressato alle crisi internazionali e ai temi di politica estera, si sta guardando l’ombelico.