Ricordare, dimenticare: il terremoto in Lombardia tre anni dopo

Reportage

Nella piazza d’accesso al paese di Moglia, cinquemilaottocento abitanti a metà strada tra Mantova e Modena, c’è un bar all’angolo con la strada che porta verso il comune e la chiesa. È un bar come se ne vedono tanti nella provincia padana, con i tavoli fuori e gli anziani del paese che conoscono tutti e quando passi e non sei del luogo ti lanciano qualche occhiata curiosa. Oggi ce n’è uno, ma fino a poco tempo fa ce n’erano tre.

Sull’altro lato della strada c’era il Bar Commercio e, di fronte, il Bar Nazionale. Il 20 maggio 2012, alle 4.03 del mattino, una scossa di magnitudo 5.9 con epicentro pochi chilometri più a sud, appena oltre il confine con l’Emilia-Romagna, e poi un’altra scossa poco meno intensa il 29 maggio hanno danneggiato irreparabilmente due dei bar storici del paese. Oggi al loro posto ci sono due spiazzi vuoti, con i muri spogli delle case vicine dipinti irregolarmente di vernice chiara, come in una periferia degradata.

Greta Bertolini è l’assessore all’istruzione, alla coesione sociale e alle pari opportunità del comune di Moglia, in provincia di Mantova, Lombardia. È una giovane donna sulla trentina, i capelli tagliati corti e la borsa a tracolla, che lavora come educatrice in un asilo nido del paese, dove è nata ed è sempre vissuta. Indossa una polo bianca con un simbolo nel margine inferiore, quello di “Piacere Moglia”, una manifestazione quest’anno alla terza edizione che rappresenta bene che cosa dovrebbe fare il paese per dimenticare il terremoto: guardare avanti.

«Non facciamo più commemorazioni. Stiamo cercando di ripartire con attività culturali e altre iniziative: a “Piacere Moglia” partecipa tutto il paese e muove tre-quattromila persone in tre giorni. Per noi è molto significativa, è il simbolo della nostra volontà di voltare pagina. Noi il terremoto lo commemoriamo tutti i giorni».

Moglia è la Moja nel dialetto locale, “la bagnata”: per quello che oggi è il nucleo più vecchio del paese passava una volta un canale, poi bonificato. Il terreno è argilloso e sabbioso, sotto il primo strato di terra, e le case più vecchie non hanno retto alle scosse. Lasciando la piazza, la strada che porta alla chiesa, alle scuole e al comune è costeggiata su un lato da un porticato basso sotto le case a due o tre piani, da Bologna in minore.

Ma già pochi metri dopo la piazza si apre un altro grande spiazzo vuoto, recintato con una rete metallica, dove una volta c’era un palazzo residenziale. Poco più oltre, gli archi dei portici sono puntellati con ingombranti armature di legno e metallo.

Il 19 aprile 2015, Matteo Renzi era in visita a Moglia, prima che la strage dei migranti nel canale di Sicilia lo costringesse a un ritorno anticipato. In quell’occasione, il presidente del Consiglio ha ufficializzato una notizia che circolava già da qualche giorno: il governo aveva trovato altri 205 milioni di euro da destinare alle opere di ricostruzione.

Era un annuncio atteso e necessario, per i molti comuni della Lombardia colpiti da quello che viene comunemente chiamato “terremoto dell’Emilia”. Se è vero che la maggior parte dei danni sono avvenuti in Emilia-Romagna, ben 14 dei 52 comuni inseriti da subito nella lista delle aree più danneggiate e considerati all’interno del cosiddetto “cratere sismico” si trovano in effetti in provincia di Mantova, al di qua del confine con l’Emilia (altri cinque sono in provincia di Rovigo, in Veneto).

Quello stesso 19 aprile, una rappresentante del “Comitato esodati del terremoto di Moglia” ha letto una lettera aperta a Renzi in cui si dava il benvenuto al premier in un paese «fermo al 29 maggio 2012». Nella lettera si ricordava che, dopo la scadenza per la presentazione delle domande dei contributi per la ricostruzione da parte dei privati (31 dicembre 2014) ci si era accorti che, a livello regionale, non c’erano abbastanza soldi. Tutte le domande presentate in Lombardia dopo il 22 dicembre 2014 si dovevano considerare accettate ma senza copertura economica.

Per dare un’idea degli interventi necessari, nel solo comune di Moglia sono state presentate 267 domande di contributi, a due anni e mezzo dal sisma. Esclusa la cinquantina di domande rifiutate, tra le altre ne sono state finanziate una sessantina, per un totale di oltre 6 milioni di euro. Le richieste che devono passare attraverso il vaglio degli uffici tecnici sono ancora centocinquanta, per circa 70 milioni di euro.

La temporanea mancanza di fondi per le ricostruzioni, a cui il governo ha dovuto mettere una pezza, ha riaperto una questione ancora molto viva tra gli amministratori locali della bassa mantovana: un diverso trattamento tra chi stava al di là e al di qua del confine della regione.

«Tutto nasce da quando, intorno al tavolo con Monti, si misero Formigoni e i governatori dell’Emilia e del Veneto. Ne venne fuori il famigerato decreto 74 [del 6 giugno 2012]. Le parti non erano eque: è stato veramente il terremoto dell’Emilia. Si è sottostimato il fabbisogno di imprese e civili abitazioni» nelle regioni vicine, dice Bertolini.

Le schede con le valutazioni dei danni, fatte nelle settimane e nei mesi subito successive alle scosse, devono essere state in alcuni casi troppo ottimistiche. Il peso politico delle forze intorno a quel tavolo deve anche essere stato diseguale, non da ultimo, per quanto possa suonare sgradevole e cinico, per il fatto che tutte le 27 morti causate dal sisma sono avvenute in Emilia. «Tutte le persone che sono passate di qua, come la Protezione Civile – ricorda Bertolini – hanno detto: voi avete avuto la fortuna e la sfortuna di non aver avuto neanche una vittima».

Le differenze di trattamento sono state chiare, dice Bertolini. La più eclatante riguarda probabilmente la diversità di indennizzo economico per chi ha dovuto abbandonare le case. A Moglia ancora 160 persone non possono rientrare nelle loro abitazioni, ma il Cas (Contributo autonoma sistemazione), l’indennità per gli sfollati, è di 200 euro al giorno in Emilia e di solo 100 nei comuni lombardi.

Passati tre anni, il prezzo che il disastro ha richiesto al paese va molto più in profondità delle recriminazioni economiche e di trattamento. «La cosa che è andata scemando è il senso di solidarietà e di appartenenza. Per i primi sei mesi o un anno c’era un fortissimo senso di comunità, e tutti si prendevano carico di chi aveva avuto la sfortuna di aver perso la casa. Ma dopo, quando ci sono state le manifestazioni perché sembrava che mancassero i soldi, in piazza c’erano solo quelli colpiti direttamente. Questo mi ha colpito moltissimo».

Le strutture semipermanenti che ospitano le scuole di Moglia.

La stessa esperienza di amministratore locale di Bertolini è stata stravolta dal sisma. Dopo dieci anni di una giunta di centrodestra, il 20 maggio 2012 la lista civica di centrosinistra di cui fa parte («Io sono del Pd e non ho paura a dirlo») aveva vinto le elezioni comunali da appena due settimane. La prima riunione della giunta del sindaco Simona Maretti – composta allora da quattro donne e un uomo – si è tenuta fuori dal palazzo comunale, in una sala delle ex scuole medie, e non è per nulla scontato che prima della fine del mandato se ne tenga una nell’aula consiliare.

Per forza di cose, tutto il mandato della nuova amministrazione è stato dominato dall’emergenza del terremoto e dai lunghi strascichi che questo ha portato. «Eravamo giovani e pieni di idee», dice Bertolini. «“CambiaMoglia”, era il nome della lista: beh, l’abbiamo cambiata. È venuto giù il mondo».

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Ostiglia, una trentina di chilometri a nordest di Moglia, è uno dei centri più importanti del mantovano orientale, quella parte della Lombardia che si incunea tra il Veneto e l’Emilia. Poco dopo la Seconda guerra mondiale ha raggiunto i diecimila abitanti, e gli anni del boom economico hanno lasciato segni molto tangibili nella forma di due palazzine residenziali di sette o otto piani, presenze incongrue che sembrano una promessa mai mantenuta di diventare una città. Da allora la popolazione è andata calando, tanto che oggi è inferiore alle settemila persone.

Anche se è lunedì, intorno a mezzogiorno, la piazza centrale è immersa in un torpore domenicale. Il fiume Po scorre a poche decine di metri di distanza, invisibile dietro le case. La piazza è dedicata, come le scuole medie del paese, a Cornelio Nepote, lo storico romano nato nell’allora Hostilia nel 100 avanti Cristo.

In una sala al secondo piano di palazzo Foglia, la sede della biblioteca comunale davanti al monumento allo storico romano, il sindaco Valerio Primavòri si siede a un tavolo basso. Alle sue spalle scansie di Topolino e Dylan Dog.

Non è la scelta giovanilistica di un primo cittadino che ha pensato a sostituire i faldoni delle ordinanze o i codici legali con i fumetti. Più semplicemente, da quando è stato eletto non ha mai avuto a disposizione il suo ufficio, e lui e gli assessori si devono arrangiare a tenere le riunioni nelle sale della biblioteca, fuori dagli orari di apertura al pubblico. L’ufficio tecnico lavora tra le persone che vanno a ritirare i libri tra gli scaffali.

Primavòri, sindaco dal maggio del 2014, deve fare solo qualche centinaio di metri per andare a visitare la sua sede istituzionale. Il municipio e la chiesa sono stati i due edifici più danneggiati di Ostiglia – un comune fuori dalla zona del cosiddetto “cratere” – insieme a due capannoni che hanno avuto bisogno di ristrutturazioni.

Mentre per l’edificio sacro i soldi sono stati messi dalla curia, i lavori per la sede comunale vanno più a rilento: la facciata è interamente coperta dai ponteggi. Sono stati spesi 1,5 milioni di euro per la parte che sta venendo ristrutturata, con la fine dei lavori prevista per la fine di luglio prossimo. Per la parte più estesa, che contiene la gran parte degli uffici, bisogna ancora fare il bando: il sindaco prevede che ci vogliano ancora due anni prima di poter tornare ad utilizzarla.

Primavòri era vicesindaco nella giunta precedente e concorda con l’idea che di qua e di là del confine le cose siano andate diversamente. «A me sembra che ci siano state due velocità. In Emilia-Romagna i soldi sono arrivati prima, con la chiarezza di alcune regole e con cose che da noi sono state inizialmente negate e poi, pian piano, ci sono state concesse».

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A Pegognaga, un comune di settemiladuecento abitanti una ventina di chilometri a sud di Mantova, si respira un’aria che ricorda l’Emilia dei circoli Arci e della musica dal vivo: lo stesso spirito di iniziativa sociale e culturale che va a braccetto con un’identità fieramente di sinistra. In via Roma c’è l’Arci Casbah, che organizza serate per cui arriva gente da tutta la zona (nel paese si tiene anche un festival musicale, il PegoRock, altrettanto apprezzato).

A poca distanza dalla Casbah, in un palazzo di inizio Novecento, c’è la vecchia sede delle scuole elementari. Il sindaco Melli cerca le chiavi da un enorme mazzo – non stupirebbe sapere che può aprire le serrature di tutto il paese – e fa strada per la scalinata che porta al primo piano.

Dimitri Melli, 40 anni, è sindaco dal 2009. Parla come un amministratore esperto, che ha ben presente le procedure, i decreti, le ordinanze, il funzionamento della macchina amministrativa. È d’accordo sul fatto che le sue zone abbiano ricevuto un trattamento diverso, rispetto a quello che è successo al di là dei limiti regionali. «Il terremoto è sempre stato considerato come “il terremoto dell’Emilia”, noi siamo sempre stati visti un po’ come quelli di serie B».

La scuola elementare è uno dei posti dove i danni sono ancora oggi più visibili, anche perché dal maggio del 2012 sono rimaste chiuse e abbandonate. I controsoffitti sono parzialmente crollati e la muffa ha invaso le pareti, la polvere e i calcinacci sono dappertutto, come se fossero passati quindici anni e non tre. Qua e là sono ancora appesi i festoni di carta e le mappe geografiche. In fondo a un corridoio si intravede un «Benvenuti».

Vicino alle colonne portanti si vede una crepa profonda, che spacca la soglia dell’atrio al primo piano. Come descrive Melli, a livello strutturale le scosse hanno aperto la scuola in tre tronconi. Ma nella struttura di inizio Novecento i lavori non sono ancora cominciati: è quasi pronto il bando per la progettazione, ma nel complesso rimetterle in sesto costerà 7-8 milioni di euro.

L’altro fiore all’occhiello del paese, da venticinque anni a questa parte, è la stagione teatrale. Oggi si tiene nel Teatro Tenda appena fuori dal centro – in via Enrico Berlinguer – dato che lo storico Teatro Anselmi, una delle strutture più grandi del paese nella grande piazza alle spalle del municipio, è completamente inagibile.

All’interno, le sedie sono state rimosse dalla platea e il foyer è avvolto in una malinconica semioscurità. Sono necessari lavori molto costosi, almeno 3,5 milioni di euro, e il sindaco prevede che, alla fine del suo mandato tra quattro anni, l’Anselmi non sarà ancora riaperto.

Davanti all’Anselmi, la piazza rettangolare è occupata dalle strutture semipermanenti delle scuole, costruite in legno da una ditta veneta, la stessa delle scuole di Moglia. Sono progettate per durare almeno trent’anni e gli interni sono puliti e asettici come un ospedale, anche se lungo i corridoi lampeggiano le spie dei router wi-fi.

Sul lato lungo della piazza, invece, c’è la palazzina in stile fascista che ospita il centro culturale, con una biblioteca, un museo, una sezione di archivi e diversi spazi per eventi. Quando ha aperto, nel 2011, era l’orgoglio del sindaco Melli: «Quando ci sono state le scosse, sono venuto qui davanti e mi veniva da piangere», dice sulla porta. Per fortuna, i danni non sono stati troppo gravi e nell’arco di pochi mesi ha potuto riaprire.

Se gli spazi pubblici sono stati colpiti duramente, le cose non sono andate molto meglio per molti privati: nel comune ci sono più di cento case inagibili. All’ufficio tecnico, una persona è stata assunta a progetto per occuparsi unicamente delle pratiche sottoposte dai cittadini per avviare le ristrutturazioni.

Nella piazza davanti al municipio, lunedì è giorno di mercato. C’è molta gente in giro, i segni del terremoto sulle facciate – complici i tendoni bianchi che coprono le bancarelle – non si notano quasi. Le scuole sono in una nuova struttura, la stagione teatrale è potuta continuare, il centro culturale è vivo e vegeto. A fianco di questi segnali di ottimismo, il sindaco di Pegognaga suggerisce che ci siano altri danni, più profondi, che non si possono risolvere con l’efficienza amministrativa.

«C’è stata quasi una rimozione psicologica del terremoto, da parte della comunità», dice Melli. Anche se la rimozione gli appare a tratti un bene, i problemi più profondi potrebbero essere «latenti». «Noi siamo stati un comune che ha utilizzato da subito un team di psicologi – che si sono prestati gratuitamente. Per circa un anno e mezzo hanno assistito bambini, genitori, insegnanti, professionisti». Ma le difficoltà rimangono. «È una cosa troppo grossa per essere concepita in una realtà come la nostra. Al di là del ricordo, si preferisce un po’ far finta di niente».

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Di ritorno a Moglia, le ferite sembrano ancora più difficili da rimarginare. Qui il terremoto si intreccia con altre storie che ricordano che siamo pur sempre nell’Italia della lunga crisi economica, per la quale anche il disastro può passare in secondo piano davanti a cambiamenti più profondi – e a cui è ancora più complicato porre rimedio.

Quando comincia a raccontare la sua vicenda, seduto alla scrivania nella palazzina degli uffici e dello spazio espositivo della Grana Enzo Scale, il 63enne Maurizio Grana ha un atteggiamento brusco, scostante. Guarda altrove, seduto di traverso sulla sedia.

Dopo le scosse di tre anni fa, un sopralluogo dei Vigili del Fuoco ha dichiarato inagibili tutti gli immobili dell’azienda. Per riaprire, dopo circa un mese, Grana ha riunito i suoi undici dipendenti e insieme hanno deciso di ricominciare a lavorare aggiustando i capannoni con i soldi dell’azienda. Stima di aver speso nel complesso circa centomila euro, che ha recuperato per meno della metà grazie ai contributi pubblici e di categoria dei mesi successivi.

La Grana Enzo Scale è stata fondata dal padre di Maurizio negli anni Sessanta. Inizialmente lavorava nel settore della verniciatura del legno, poi i cambiamenti del mercato hanno portato l’azienda a reinventarsi più volte. Intorno al 1978, Maurizio Grana, il fratello e la sorella hanno cominciato a produrre scale per interni, un settore che era particolarmente vivo al di là del confine, a Novi. Nei primi anni Duemila la ditta ha raggiunto l’apice della sua produzione.

Oggi tutti i dipendenti sono in cassa integrazione: il fatturato è crollato dai 2,5 milioni di euro del 2006 ai 500 mila euro scarsi dello scorso anno. Più che il terremoto e le sue conseguenze, la preoccupazione che agita Grana è lo spettro della chiusura. «Abbiamo cominciato a sentire la crisi nel 2008», dice, anche se la situazione è precipitata dopo il 2011. «È una crisi di settore, nazionale. Noi siamo in crisi perché l’edilizia si è fermata».

Man mano che parla, Grana si lascia andare. «Al di là del terremoto, grazie alla nostra voglia di fare e alla nostra intraprendenza siamo riusciti a ripartire. Il terremoto ci ha messo in ginocchio, ma è stata una cosa temporanea. Quello che ci sta ammazzando è la crisi del settore».

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La facciata del municipio di Moglia è puntellata da tre grosse strutture in tubi di acciaio. I soldi per rimettere a posto la struttura sono stati assegnati a novembre del 2014, quasi quattro milioni di euro, e la progettazione è stata assegnata a uno studio di Mantova. Quando cominceranno i lavori, dopo il parere della Soprintendenza, ci vorranno almeno due anni, lunghi e complicati da interventi alle fondamenta. Viaggiando per i territori colpiti dal sisma, si ha l’impressione che la cosa davvero difficile non sia tanto ricostruire, quanto riparare: come negli edifici, così nelle persone. «Diciamola tutta – ci dicono davanti al municipio – se veniva giù era meglio».

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