Scuola, il rischio concreto della riforma abortita

Scuola, il rischio concreto della riforma abortita

Non c’è da stupirsi, della levata di scudi dell’intero mondo della scuola contro la riforma all’esame del parlamento. I sindacati sanno quel che gli studi elettorali confermano, cioè che il bacino elettorale del milione di dipendenti del sistema formativo pubblico è sempre stato a prevalenza di sinistra e del Pd. Dunque, sotto elezioni regionali, ecco lo sciopero unitario generale della scuola, il prossimo 5 maggio. O il governo e il Pd cedono in parlamento prima di allora su punti essenziali della riforma, oppure ci sarà uno scotto da pagare alle urne. L’eventualità più probabile è che quel poco di buono che era rimasto in una riforma tre volte riscritta sparisca, e il tutto si risolva in un’ancor più estesa sanatoria di precari.

Il rischio ora diventa quello di vedere travolte anche alcune delle pur attenuate novità che la riforma ancora conteneva

Aggiungiamo però che il governo doveva aspettarselo. Aveva acceso molte speranze, appena entrato in carica. Aveva adottato una consultazione pubblica senza canale preferenziale con i sindacati, però su un testo poi sconfessato. Riformulatolo, aveva annunciato decreti legge. Per poi ripiegare due mesi fa su un disegno di legge ancora variato, ma promettendo un decreto legge assumi-precari visto che l’esame parlamentare altrimenti non sarebbe coerente con i tempi necessari a formare le classi per settembre, con i 100mila nuovi assunti. Il sindacato ha osservato indispettito questo zigzagare, e sa anche che il ministro Giannini si è trovata lei per prima più volte spiazzata. Non è un caso che ora, a protesta esplosa e a incidente avvenuto alla Festa dell’Unità, siano per primi gli esponenti del Pd ad accusarla di essere stata poco sensibile al confronto sindacale. Se la Giannini sperava di procurarsi uno scudo entrando nel Pd, direi che ha proprio fatto male i conti.

Il rischio ora diventa quello di vedere travolte anche alcune delle pur attenuate novità che la riforma ancora conteneva. È ovvio che i sindacati chiedano la messa in ruolo di tutti i precari, e la decadenza del neo registro regionale in cui finirebbero quelli di seconda fascia, non stabilizzati. E che diventerà più difficile salvaguardare guardando al solo merito, per esempio tutelando chi aveva seguito e superato il percorso abilitante per prove del TFA. Ma il segnale meno incoraggiante è il forte attacco in corso sulla questione dell’autonomia, del dirigente scolastico, della valutazione. Cioè appunto sul residuo di novità più significative rimaste nel testo della riforma.

È la valutazione del merito, la questione di fondo. Già il governo ha dovuto fare, nelle diverse bozze, molte marce indietro. Le dichiarazioni iniziali prevedevano che solo il 30% massimo degli aumenti retributivi ai docenti sarebbe stato determinato dall’anzianità, e il 70% dal merito. Premiando in tre fasce di diversa progressione l’80% dei docenti ed escludendone il 20%. A valutare il merito, secondo un certo peso tra crediti didattici, formativi e professionali, sarebbe stato un nucleo di valutazione per ogni istituto, presieduto dal dirigente scolastico. Se gli insegnanti per due volte di fila non fossero riusciti a rientrare almeno nella terza fascia, avrebbero rischiato un’ispezione. Se la mancata promozione persistesse, poteva arrivare fino a quella che in gergo scolastico si chiama dispensa, cioè la sospensione dal servizio per incapacità, fino al licenziamento per inidoneità.

Nel testo finale quella rivoluzione è già scomparsa. Gli scatti retributivi di anzianità restano, per gli insegnanti. Ma il governo ha scovato per il 2016 anche 200 milioni di premi al merito per i docenti, attribuiti secondo le valutazioni su ogni insegnante che in ogni istituto farà innanzitutto il dirigente scolastico e i suoi collaboratori. E in più il governo ha anche aggiunto una carta-insegnante di 500 euro l’anno, per sostenere i consumi culturali che ogni docente deve sostenere per l’aggiornamento, dai libri al teatro.

Sarà un’altra vittoria della storica indisponibilità del pubblico impiego a farsi selettivamente giudicare secondo criteri di impegno e produttività

Ora i sindacati hanno messo nel mirino il ruolo del dirigente, e già il Pd ha accettato che non avrà un ruolo prevalente né nel giudicare il merito dei docenti, né nella scelta dell’integrazione all’organico pescando dall’albo regionale dei docenti a disposizione, né nella vita economica, organizzativa e lavorativa della scuola che doveva configurare la nuova ed estesa autonomia di ogni istituto. Tutto dovrà avvenire nel concerto assoluto del corpo docente di ogni istituto, no ad ogni attribuzione al dirigenti di poteri sovraordinati. E, smontati gli scatti di merito ripristinando quelli di anzianità, e lasciato al merito la sola funzione di un premio aggiuntivo, si tratta ora di attribuirlo a tutti estendendone i criteri il più possibile a progetti comuni a cui partecipino tutti gli insegnanti di ogni istituto.

Se finirà così, e oggi appare molto probabile, sarà un’altra vittoria della storica indisponibilità a farsi selettivamente giudicare del pubblico impiego secondo criteri di impegno e produttività. Se la valutazione di merito è seria, deve avvenire secondo criteri noti ex ante, che contemplino le performance ottenute nelle classi, le verifiche sull’insegnamento frontale, i giudizi di studenti e famiglie. Deve prevedere fasce di crediti e punteggio diverse. E deve essere parte integrante della retribuzione. Si potevano seguire alcuni dei modelli praticati con successo da molti altri paesi. Ma, per questo risultato, occorreva essere espliciti e chiari, scegliendone uno. Il sindacato avrebbe resistito, ma non avrebbe potuto dire di non esser stato coinvolto. Anche perché il governo sapeva benissimo che questa vicenda si inserisce nel quadro di contratti del pubblico impiego fermi da anni. A maggior ragione il governo doveva procedere nella chiarezza, se dalla scuola intendeva estendere a tappeto in tutta la PA una logica premiale del merito, e una cultura e prassi seria della valutazione delle performance individuai. Cominciando nella scuola oggi, ma in tutto il mondo pubblico subito dopo.

Vedremo l’esito finale. La tendenza a non farsi misurare e valutare individualmente è il vero problema della pubblica amministrazione italiana. Il solo accennarvi suscita ondate di protesta dei docenti come degli impiegati pubblici, molti dei quali per altro si sottopongono anche a sforzi innegabili. Per piegare resistenze tanto forti un governo riformatore deve saperlo, che l’ostacolo al farsi valutare si supererà solo quando i primi a essere ancor più inflessibilmente giudicati saranno proprio i dirigenti: chi più ha responsabilità, per primo dovrebbe sapere che se non raggiunge gli obiettivi assegnati può andare anche a casa, senza scaricabarile su chi è sottoposto alle sue direttive. Non è una scuola o una pubblica amministrazione gerarchica, quella che mette il merito al centro di tutto. Sono una scuola e una PA efficienti, quelle che consentono a chi s’impegna di guadagnare anche molto di più, e di diventare dirigente a 35 anni invece che a 60. Temiamo che resterà un sogno.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter