Xiaolu Guo è un personaggio molto particolare. Scrittrice e filmmaker nata poco più di 40 anni fa in una provincia contadina del sud della Cina e trasferitasi a Pechino da ragazza, a un certo punto della sua vita, nel 2002, ha deciso di andarsene dal suo paese d’origine e di trasferirsi in Europa, tra Londra e Parigi.
Pur non avendo ancora trent’anni quando se n’è andata, Xiaolu Guo aveva già pubblicato parecchi romanzi in Cina, ma quando arrivò in Europa decise che da quel momento avrebbe scritto in inglese, imparando non senza difficoltà a scrivere in una seconda lingua e costruendosi con successo una seconda identità letteraria, tanto che nel 2013 è stata inserita dalla rivista Granta nella lista dei migliori giovani scrittori inglesi.
Quest’anno, in occasione dell’uscita di due suoi libri — La Cina sono io, e 20 frammenti di gioventù vorace, entrambi editi da Metropoli d’Asia — Xiaolu Guo è stata ospite del Salone del Libro di Torino, dove l’abbiamo incontrata per farci raccontare la sua esperienza di scrittura e di migrazione.
«Il trasferimento in Inghilterra è stato complicato» ci racconta. «Ho dovuto fare i conti con una nuova identità, non solo come scrittrice, ma anche come persona. In Cina avevo già scritto tanti libri, ovviamente in cinese, ma quando sono arrivata a Londra ho pensato fosse sbagliato continuare a scrivere in cinese, sarebbe stato schizofrenico e, soprattutto, sarei rimasta isolata. Per questo dal primo giorno in cui sono arrivata ho parlato in inglese, ho letto in inglese, e mi sono chiesta come potevo creare la mia nuova identità culturale a partire da quella lingua».
«Se avessi continuato a scrivere in cinese a Londra sarei stata ignorata perché quel che volevo scrivere non sarebbe mai stato pubblicato in Cina»
Perché hai scelto di scrivere in inglese?
Quando sono arrivata in Europa ho vissuto un periodo di sofferenza, come se non avessi voce. Non volevo essere una migrante economica, perché mi sarei privata della mia cultura, volevo essere piuttosto una migrante culturale, che per me significa poter parlare della mia cultura di origine e inserirmi nel mondo intellettuale occidentale. In quei primi tempi vivevo una profonda solitudine, se avessi continuato a scrivere in cinese a Londra sarei stata ignorata perché quel che volevo scrivere non sarebbe mai stato pubblicato in Cina. Nello stesso tempo, nessuno in Occidente avrebbe accettato un manoscritto in cinese. Per questo ho deciso di provare a scrivere in inglese, provando a conquistare la capacità di esprimermi in quella lingua e ho scritto Piccolo dizionario cinese-inglese per innamorati, il mio undicesimo libro, il primo in inglese, che divenne presto un bestseller.
Cosa ha comportato nella tua scrittura?
È stato un esperimento molto interessante per me, perché ho scoperto la mia identità parlando in un’altra lingua. Dopo quel momento ho sempre scritto in inglese. È stato difficile, soprattutto tecnicamente, ma ho guadagnato una grande libertà, sia dal punto di vista espressivo che politico, non mi preoccupavo più del fatto che mi avrebbero censurato in Cina.
È più quello che hai perso e quello che hai guadagnato?
Sicuramente ho perso la facilità di scrittura, perché scrivere in una lingua straniera è complicato, soprattutto se il passaggio è dal cinese a una lingua europea, lingue diversissime. Nello stesso tempo però ho anche guadagnato tanto, a cominciare dalla libertà di esprimere opinioni politiche che prima mi restavano dentro. Senza contare la ricchezza di esperienze che ha accompagnato il mio spostamento in Inghilterra, che insieme alla ricchezza linguistica che rappresenta sempre l’imparare una lingua straniera. La mia vita è molto più ricca, come donna e come scrittrice.
«In Europa ho anche scoperto che parlare di vita e di amore può essere un’esperienza molto più forte che parlare di politica»
Che rapporto ci deve essere tra arte e politica?
Se cresci in paesi come la Cina o la Russia sei sempre portato a pensare che l’arte sia al servizio della politica e che ogni artista debba sempre essere impegnato. Quando sono arrivata a Londra dalla Cina però mi sono scontrata con il fatto che gli scrittori inglesi non la pensano affatto così. Poi mi sono spostata a Parigi, dove la tradizione intellettuale è molto più impegnata, engagée, ma ho anche scoperto che parlare di vita e di amore può essere un’esperienza molto più forte che parlare di politica. È una cosa che non potevo capire fintanto che vivevo e scrivevo in Cina. Ed è stata anche questa una conquista arricchente. Quindi la mia risposta è sia sì che no, l’artista ha sempre un rapporto con la politica, ma non deve per forza parlare sempre di politica.
Quali sono le tue fonti di ispirazione?
La materia di quel che scrivo è sempre molto reale, viene da chi incontro, da dove vivo, da chi conosco. Non sono una scrittrice come, per esempio, Umberto Eco, che prende quel che scrive da altri libri, da una biblioteca. Rispetto molto il lavoro di Eco e mi piacciono i suoi romanzi, ma non è il mio modo, la mia fonte di ispirazione è sempre la vita, la realtà. Forse questa tendenza mi viene anche dal fatto che non sono cresciuta in un ambiente accademico. I miei nonni erano contadini e io ho vissuto una parte della mia vita in una società contadina, tra persone che non avevano studiato, forse un po’ grezze, ma per la mia scrittura è fondamentale questo background.
Quando scrivevo in cinese l’autocensura giocava un ruolo molto importante, era ingombrante per me, dovevo pensare sempre a cosa potevo dire e cosa no
In Cina quanto pesava l’autocensura sulla tua scrittura?
Quando scrivevo in cinese l’autocensura giocava un ruolo molto importante, era ingombrante per me, perché qualsiasi cosa scrivessi, proprio perché partivo dalla mia esperienza, pensavo sempre a cosa potevo dire e cosa no. Il mio primo pensiero era il voler continuare a scrivere, perciò intervenivo molto su me stessa, autocensurandomi o cercando di raccontare con metafore ciò che non potevo raccontare direttamente. Anche per questo lo scrivere in inglese è stata per me una grande liberazione, ora scrivo esattamente quel che voglio scrivere, non sono obbligata a censurare nulla di quel che penso e che scrivo.
In Europa ormai molti discorsi sulla migrazione sono orientati a dipingere il fenomeno come una “invasione”. Cosa ne pensi?
Quello che l’Europa sta vivendo in questo momento credo che sia soltanto un effetto della post colonizzazione. La maggior parte dei migranti che arrivano in Europa provengono da ex colonie, dal Sud America, dall’Africa, dall’Asia. Gli europei hanno colonizzato quei paesi per centinaia di anni e ora, che quei continenti del terzo e del secondo mondo stanno vivendo un periodo difficile, di grande povertà, è normale che cerchino di tornare alle radici del problema, e vengono in Europa. Sono dinamiche molto complicate e io credo che non si possa continuare a usare delle categorie conservative verso l’immigrazione. Dobbiamo approcciare il problema da un punto di vista storico, come conseguenza del periodo coloniale. Da scrittrice poi mi piacerebbe molto che cambiassimo le parole che usiamo quando parliamo di fenomeni così complessi.
Che parola proponi?
Credo che un’ottima parola da usare al posto di “immigrazione”, per esempio, sia “movimento”. Mi sembra che dia meglio l’idea di una dinamica che somiglia più al moto delle onde del mare, continuo e inevitabile nella storia dell’uomo, più che a una “invasione”. E poi è una parola neutrale, che non suggerisce giudizi di valore. Sarebbe un passo avanti, spero che ci arriveremo presto.