TaccolaBrutto e sbagliato, il marchio del Made in Italy non piace agli operatori

Brutto e sbagliato, il marchio del Made in Italy non piace agli operatori

Il segno unico distintivo per le produzioni agricole e alimentari italiane finisce impallinato dagli operatori del settore. Presentato lo scorso 27 maggio dal ministro dell’Agricoltura e delle politiche agricole e forestali, Maurizio Martina, e dal viceministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, il nuovo marchio, come ha scritto il Mipaaf, «serve alla promozione del Made in Italy agroalimentare, sotto una bandiera unica, e al contrasto dell’Italian sounding», che nel mondo vale quasi 60 miliardi di euro. Il logo non sarà posto sui singoli prodotti ma verrà utilizzato in occasione delle fiere internazionali, in attività di promozione all’interno dei punti vendita della grande distribuzione estera, nelle campagne di comunicazione e promozione in Tv, sui media tradizionali, su Internet e sui social media.

Il logo è questo: 

Nelle parole del ministero dell’Agricoltura, «il segno unico è rappresentato da una bandiera italiana con tre onde che richiamano il concetto di crescita e di sviluppo e dalla scritta “The extraordinary italian taste”». 

Nel video di presentazione del “segno unico distintivo” si spiega che le tre onde stanno a significare “cambiamento”, “espansione”, “crescita”. Ma in realtà molte altre cose: territorio (richiamando i monti), biodiversità, agricoltura, pesca (onde), allevamento (pascoli), vino (filari delle vigne), tradizione, gusto, grande cucina, oltre che gli immancabili innovazione ed eccellenza

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ITALIANTASTE from Gruppo Food on Vimeo.

A vincere il concorso di idee era stata una bandiera morsicata poi sostituita con l’attuale bandiera “a gradini” ricurvi per mascherare il “morso” perché per il ministero aveva un’accezione negativa

In realtà, probabilmente all’inizio chi ha curato la campagna voleva semplicemente parlare di gusto, perché, come ha ricordato il sito agricolae.eu, ripreso da italianfruit.net, «a vincere il concorso di idee, al secondo tentativo – al primo giro erano state scartate tutte – era stata una bandiera morsicata poi sostituita con l’attuale bandiera “a gradini” ricurvi per mascherare il “morso” all’angolo che per qualcuno, al ministero dello Sviluppo economico, sembrava avere un’accezione negativa, prefigurando un vilipendio alla bandiera. Sarebbe così stato chiesto all’agenzia vincitrice di mettere mano al logo per modificarlo».

Non sarebbe un cambiamento da poco, spiega il fondatore di un’agenzia di comunicazione che ha chiesto di non essere citato. «Se è andata così mi sentirei di assolvere chi ha curato il logo. Spesso è il committente che rovina il lavoro». 

Annamaria Testa: «il messaggio è generico: manca un riferimento a parole come “originale, vero, autentico, garantito, fatto in Italia”»

Il fatto è che il logo agli addetti ai lavori non piace. Ad aprire il fuoco per prima è stata Annamaria Testa, titolare della società Progetti Nuovi. In sintesi, le critiche al marchio sono su quattro fronti. Primo, il messaggio è generico: manca un riferimento a parole come “originale, vero, autentico, garantito, fatto in Italia”. Secondo, la scelta di comunicare il “gusto” è discutibile, perché il richiamo al gusto è proprio quello che fanno i prodotti italian sounding, cioè i vari Parmesan che il marchio vuole combattere. Terzo, la scelta della lingua inglese non valorizzerebbe il prodotto italiano. Quarto, la scelta della bandiera (ondulata verso la crescita o morsicata) non sarebbe azzeccata, perché la bandierina è usata spesso proprio dai prodotti italian sounding. 

Un giudizio troppo duro? Non per Mirko Nesurini, Ceo di Gwh Brand Consultancy & The Work Style Company e uno dei massimi esperti mondiali in fatto di marchi. Per Nesurini i problemi sono su vari livelli. Intanto, riguardano il logo stesso: «La lingua inglese rende tutto finto e il logo è pieno di ghirigori che non servono a nulla. Serviva una semplice bandiera italiana con la semplice scritta “originale italiano“». In secondo luogo, «i problemi vengono fuori quando devi dire tante cose. Il logo deve dire una cosa unica e per questo la bandiera italiana, con una semplice scritta, sarebbe stata sufficiente». C’è però un problema più ampio, e riguarda l’efficacia della strategia di comunicazione. In primo luogo perché la scelta di usare il marchio solo per fiere, comunicazione in store e pubblicità su giornali, tv e web rischia di significare «buttare i soldi – spiega Nesurini -. Non per essere distruttivi, ma per comunicare un marchio a livello mondiale ci vogliono miliardi, non alcuni milioni di euro». Il governo ha comunicato che saranno impiegati 70 milioni di euro, all’interno di una più ampia strategia di internazionalizzazione del Made in Italy finanziata con 260 milioni di euro.

Mirko Nesurini: «La decisione della Svizzera dopo anni di battaglie perse ora è di attaccare con gli avvocati invece che con la comunicazione»

In secondo luogo, l’esperienza svizzera suggerisce che agire solo sulla comunicazione potrebbe essere illusorio. «Gli svizzeri venivano da anni di battaglie perse nella tutela dei prodotti dalle imitazioni straniere. Sei mesi fa il Parlamento ha cambiato strada e varato il programma “Swissness”. Affronta il problema in modo totalmente diverso dall’Italia e dice, in sostanza, che chi utilizza il marchio svizzero in modo improprio va perseguito legalmente. La decisione è di attaccare con gli avvocati invece che con la comunicazione».

Un approccio radicalmente diverso per la tutela del Made in Italy è necessario anche per Marco Bettiol, ricercatore all’Università di Padova e autore del libro “Raccontare il Made in Italy. Un nuovo legame tra cultura e manifattura” (Marsilio, 2015). «Ha senso nel 2015 sviluppare l’ennesimo marchio? – si chiede -. Si rischia di avere un’operazione simile a quella del portale “Italia.it”. Rischiamo di entrare in un binario morto, anche nel dibattito». Per il ricercatore dell’ateneo padovano, «oggi la richiesta del consumatore è di avere un’informazione approfondita sul prodotto. Lo sforzo delle imprese italiane deve essere di raccontarsi meglio, spiegando dove e come viene fatto un prodotto». I temi da toccare nella comunicazione sono quelli della trasparenza, della tracciabilità, dell’onestà e della cultura. La sfida, secondo Bettiol, «deve partire dalle singole imprese» o dai consorzi, mentre il governo dovrebbe limitarsi a dare una garanzia generale, attraverso i controlli, sul fatto che lo “storytelling” corrisponda alla sostanza dei fatti. 

Vito Gulli: «Non sono d’accordo con la scelta della parola “taste”, gusto. È il corrispettivo della dicitura “created in Italia” nella moda»

L’ultima picconata arriva da Vito Gulli, presidente di Generale Conserve e uno degli imprenditori che più hanno messo la faccia sulla difesa del Made in Italy. «Non sono d’accordo con la scelta della parola “taste” (gusto) nel logo. Taste è il corrispettivo della dicitura “created in Italia” nella moda. Se vogliamo dare un riconoscimento alla qualità dei nostri prodotti e al lavoro, che a parole tutti difendono, dobbiamo parlare di “produced in Italia”. E che sia una vera produzione, non un semplice inscatolamento». 

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