TaccolaFondi senza coraggio e padroni vecchio stile: così le imprese restano nane

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«Il tema è l’imprenditore che non accetta mai le decisioni altrui. Mi dicono che il Fondo Strategico Italiano abbia provato fino all’ultimo a mettere insieme Cavalli e Versace per provare a creare un primo grande polo, come quello che Bernard Arnault ha realizzato con Lvmh. In Italia è impossibile, ci ha provato Prada ma è stato un bagno di sangue». A parlare, nella redazione de Linkiesta, è Leonardo Luca Etro, uno che di moda se ne intende (è nipote del celebre stilista Gimmo Etro) e che si intende soprattutto di finanza aziendale, di cui si occupa nella sua cattedra alla Bocconi. Nell’open talk “Il futuro della finanza per le Pmi. Cosa c’è oltre la banca?” ne ha discusso con Carlo Daveri, presidente e ad di Dvr Capital, e Fabio Bolognini, fondatore della società di consulenza aziendale Linkerbiz e della piattaforma Workinvoice.

Etro: «Mi dicono che il Fondo Strategico Italiano abbia provato fino all’ultimo a mettere insieme Cavalli e Versace per provare a creare un primo grande polo»

Oltre alla banca, per le piccole e medie prese italiane, c’è molto poco, almeno per ora. Non ci sono i fondi, non c’è se non in pochi casi la Borsa, non ci sono i minibond, e non ci sono ancora se non in piccola parte le piattaforme di social lending che stanno crescendo a tutta velocità negli Stati Uniti, Regno Unito e Nord Europa. 

Ma il primo problema è culturale: «Ed è sempre lo stesso, la dimensione del tessuto delle imprese italiane – ha detto Daveri -. Sono troppo piccole e fare aggregazioni è quasi impossibile. Ci vuole qualcuno che le aiuti a farlo: noi abbiamo appena assistito famiglia Gervasoni nel creare un polo del design italiano. Ma in generale in Italia manca questa progettualità».

Tra quelli che dovrebbero aiutare le imprese ad aggregarsi, aggiunge l’advisor di Dvr Capital, spiccano per assenza i fondi. «Il private equity snobba le piccole imprese per motivi di efficienza: i tempi di un finanziamento, dal punto di vista procedurale, sono gli stessi per una piccola o per una grande azienda. Per questo si preferisce puntare su investimenti più grandi, che danno maggiori risultati».

Daveri: «Nei prossimi cinque anni cambierà poco. Il coraggio e il piacere di investire per fare crescere le nuove realtà sono la chiave di tutto. E al momento il coraggio non è tanto»

Anche gli stessi fondi sono piccoli: «Il più grande gestisce un miliardo, ben altra cosa rispetto ai billion che passano dagli omologhi stranieri – spiega -. Altri sono sui 100/80/50 milioni di euro di capitale gestito. I più piccoli non esistono e questo ci fa capire come il tipo di investimento sia ristretto a una realtà precisa, dove non rientrano le piccole imprese». Né la situazione sembra migliorare: «Nei prossimi cinque anni cambierà poco. Il coraggio, la passione, il piacere di investire per fare crescere le nuove realtà sono la chiave di tutto. E al momento il coraggio non è tanto».

«Non cambierà molto nei prossimi anni – conferma Leonardo Etro -. Anche perché al momento vengono premiate le masse gestite accumulate: lì i risparmi ci sono, la liquidità c’è, ma per chi vende. Esistono però aziende dove le famiglie hanno creato family office, e allocano parte dei fondi in private equity; aumentano anche gli investment club». Lo stesso Etro ne ha creato uno, con cui partecipa al finanziamento di start up. 

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E il social lending, i prestiti tra privati resi possibili dalle nuove piattaforme come Funding Circle e OnDeck? Nei soli Stati Uniti, il valore dei prestiti attraverso questi sistemi raggiungerà i 150 miliardi di dollari nel 2025. Per Fabio Bolognini – la cui creatura Workinvoice è uno scambio di fatture tra privati – «queste piattaforme sono il futuro della finanza, perché si basano su tecnologie completamente nuove che permettono incontri che prima erano impossibili». Il social lending, aggiunge Leonardo Etro, «ha permesso di cambiare le logiche di selezione delle imprese: per le Pmi la logica del rating è tramontata. Un fallimento non conta se si parla di start up. È meglio basare il prestito del social lending sulla social reputation. Ci farei un’app apposita, se fossi in grado diventerei il nuovo Mark Zuckerberg (il fondatore di Facebook, ndr)». Minimizzare il rischio di insolvenza grazie a nuovi algoritmi sarà il sacro graal del social lending, ma – secondo gli esperti del settore – porrà dei problemi notevolissimi di privacy, perché scandaglierà tutte le tracce che chi chiede un prestito ha lasciato nel grande mare dei big data. 

Tuttavia i dati attuali sono davvero irrisori in Italia, perché oggi il mercato italiano è piccolo: il volume dei prestiti non supera i 23 milioni di euro. Così come piccoli sono i dati dei minibond. «Ai minibond hanno fatto ricorso 50 soggetti in tre anni – spiega Bolognini -. Il progetto è valido, ma l’offerta è scarsa perché l’imprenditore deve capire perché deve pagare una cedola del 6%. C’è un “mispricing” sui clienti buoni». 

Alla base di tutti questi insuccessi della finanza come alternativa al sistema bancario, c’è un dato comune: leggi pesanti che non li favoriscono. «Per i minibond il problema è lo stesso del social lending e del crowdfunding – dice Etro -. È legislativo: per sottoscrrivere un minibond bisogna essere un investitore istituzionale. E i soliti 40 fondi non fanno niente per le Pmi». 

Anche le banche, tuttavia, sono lontane dalle imprese. «Il sistema italiano – sottolinea Daveri – è sempre stato bancocentrico. Finché c’era una banca locale e un banker che faceva da mamma per le aziende, il sistema funzionava bene. Abbiamo voluto creare la banca universale e ci siamo trovati le sofferenze sui crediti», che hanno superato la soglia di 180 miliardi di euro complessivamente. 

La nuova Cdp? Daveri: ««Visto che il privato non ha i muscoli, lo Stato deve fare la sua parte» 

Di fronte a queste debolezze nel finanziamento delle imprese, la Cassa Depositi e Prestiti deve giocare un nuovo ruolo, con i nuovi vertici? «Visto che il privato non ha i muscoli, non riesce a mettersi d’accordo, a creare campioni nazionali, allora penso che lo Stato debba fare la sua parte – risponde Carlo Daveri.  Come ha fatto in Francia. Mi piange il cuore vedere Pirelli e Loro Piana in mano agli stranieri». 

Non è d’accordo Bolognini: «Penso che la Cdp debba diventare come la sua omologa britannica, che mette soldi sul venture capital, ha distribuito investimenti di visione avanzata e favorisce uno sviluppo dell’infrastruttura finanziaria, di cui si avvantaggiano le Pmi. È soprattutto trasparente e al riparo da interferenze politiche. Questa è stata la traiettoria seguita da  Giovanni Gorno Tempini (l’ad uscente di Cdp, ndr), anche se non aveva una cornice strategica. Ora il tema è che farà la Cdp? Farà salvataggi? E fino a che punto si spingerà?». 

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