«C’era una terra arida, tanto arida che a volte, pur coltivando, non si otteneva nulla. E la sera solo lupi, lune e orsi. Ogni tanto qualche serenata». Anno 1965, giorno di Sant’Antonio. La signora Maria di Gerlando, compiuti i 21 anni e raggiunta la maggiore età, inizia a sognare di partire. Vuole lasciare la Maiella e la solitudine delle montagne. Ha un zio in Scozia e passa le giornate a pregare i genitori di lasciarla andare. «Vado anche senza il vostro consenso. Ma vi prego, mandatemi con concordanza», racconta di aver chiesto, in un italiano bloccato per sempre nel passato e rinfrescato oggi dall’inglese. «Io volevo vedere, esplorare la vita onestamente. E non mi davo pace».
«Al 136 di Clerkenwell Street si incontrano tutti i giovedì i migranti di un tempo che fu. Anni Cinquanta, Sessanta, Settanta»
Al numero 136 di Clerkenwell Street di Londra, il Centro Pallotti raccoglie e conserva le storie della vecchia migrazione italiana a Londra. È qui che tutti i giovedì si incontrano i migranti di un tempo che fu. Anni Cinquanta, Sessanta, Settanta. Quando si partiva su treni tanto carichi da dover spingere dentro a forza la valigia dal finestrino. Quando si viaggiava fino a Calais, in Francia, poi in nave attraverso la Manica e poi ancora – dopo i vaccini e 24 ore di quarantena sulla costa inglese – in carrozza fino alla città del cugino, dello zio, o dei fratelli espatriati anni prima. O si prendeva il pullman, quelli organizzati di comune accordo dal governo inglese e da quello italiano.
«Si partiva su treni tanto carichi da dover spingere dentro a forza la valigia dal finestrino»
Alle 14.30, finito il pranzo e servito il caffè, è il momento dei valzer. Mezz’oretta, e poi: «Serietà ora», chiede una signora. «È il momento dell’inno. Prima quello inglese. Che ascoltiamo in silenzio, per rispetto», dice. E poi quello di Mameli, che si canta ad alta voce, in coro e sull’attenti.
Seduto al computer, su un piccolo palco, Pietro Molle dà il ritmo alla giornata. Sceglie i balli, guida i canti, e si gode «il flusso della terza età anglo-italiana». È lui che è stato scelto di recente come presidente dei Comites di Londra (gli organi elettivi che rappresentano i cittadini italiani all’estero nei rapporti con gli Uffici consolari). Ed è a lui – arrivato in Gran Bretagna nel 1969 e alle spalle anni di lavoro presso le Acli – che le istituzioni italiane hanno chiesto di analizzare la nuova migrazione, «il nuovo flusso», per capire come intervenire a suo sostegno.
Le differenze tra generazioni sono tante, racconta. Il livello di istruzione, il lavoro, la costanza. «I vecchi sono partiti con la quinta elementare. I prigionieri del Dopoguerra che hanno scelto di restare qui, a volte erano del tutto analfabeti. Ora arrivano dottori, ricercatori, medici. Ai miei tempi si veniva qui con il lavoro assicurato. Potevi entrare nel Regno Unito solo se qualcuno – in genere un parente o un compaesano – ti chiamava per lavorare con lui. Si lasciava l’Italia in piena ricostruzione, che pure aveva bisogno di manodopera, ma che non pagava o lo faceva poco e saltuariamente». E poi i tempi di permanenza. I contratti che gli italiani firmavano all’arrivo in Inghilterra erano spesso di quattro anni. E ti costringevano a tenere lo stesso lavoro per tutta la durata, anche se duro e sfiancante. «Oggi i giovani vanno e vengono con facilità. Alcuni rientrano dopo poco, troppo velocemente».
«Perché a Londra i giovani accettano di fare quel che in Italia non accetterebbero mai?»
E poi c’è la gavetta, punto di contatto – questo – tra generazioni. «C’è una cosa che non capisco», dice Pietro. «Non capisco ma insieme capisco – si corregge – perché è quel che ho fatto anche io». Perché ancora oggi, nonostante le alte qualifiche dei nostri giovani, una volta arrivati si deve sempre ripartire da zero? Perché i ragazzi di oggi continuano a dover fare camerieri e lavapiatti prima di ottenere il lavoro che desiderano? E perché qui accettano di fare quel che in Italia non accetterebbero mai? – si chiede Il signor Pietro. Eppure, racconta, «anche io arrivato in Inghilterra ho iniziato pulendo i pavimenti di un ospedale e servendo il tè ai malati nel pomeriggio. Nonostante in Puglia facessi l’insegnante e mai avrei scelto di fare un lavoro simile».
La risposta arriva dopo una breve riflessione. «Sono le opportunità di crescita che questo Paese offre a far accettare il sacrificio e il lavoro umile. Sappiamo tutti, noi anziani e voi giovani, che qui il lavoro paga, e prima o poi ottieni quel che desideri».
«Sappiamo tutti, noi anziani e voi giovani, che qui il lavoro paga, e prima o poi ottieni quel che desideri»
«In ogni avventura / ci sono rischi e paure // Ma la più grande paura / è se non rischi l’avventura», recita a memoria la signora Maria di Gerlando. Sono versi suoi, di lei che nei primi tempi in Scozia ha lavorato per quattro anni in un negozio di Fish &Chips, fino a mezzanotte, tenendo duro per la paura di perdere il lavoro ed essere rispedita in Italia. Lei che ha sposato un siciliano, ha divorziato e ha cresciuto sola due bambine, lavorando e guadagnando a sufficienza per comprare «una casetta» e mandarle all’università. «Ma oggi sono felice, mi godo la vita e gli anni mi sembrano passare così in fretta…».
«È una generazione che contiene la stessa voglia di andare, vedere, e cercare opportunità migliori della terra arida italiana»
La sua e quella di Pietro, forse, sono storie forse troppo lontane dalla migrazione fatta di EasyJet, smartphone e lauree in tasca. Ma è un mondo che contiene la stessa voglia di andare, vedere, e cercare opportunità migliori della terra arida italiana. «In ogni avventura / ci sono rischi e paure // Ma la più grande paura / è se non rischi l’avventura».