«Orfini è come la Juventus, lui vince sempre. Nel Pd di Bersani era in maggioranza ed è in maggioranza anche adesso». Picchia duro Pippo Civati, un ex compagno nei meandri delle minoranze democratiche. L’altro Matteo, milanista, oggi presidente del Pd ma soprattutto commissario del partito a Roma, dà le carte al tavolo dei vincitori. L’ufficio al Nazareno, le porte aperte a palazzo Chigi, le riunioni in Campidoglio. Giovane turco, adulto renziano. Prima era il gemello diverso di Fassina, ora gioca alla Play Station col presidente del Consiglio. Gli stessi compagni di partito parlano di una «carriera folgorante». Ex dalemiano, bersaniano e cuperliano. Nel marzo 2013 aveva proposto Renzi premier. I maligni ipotizzano l’avesse fatto «per bruciarlo». Ora la sintonia sembra completa. Il quarantenne Orfini si è schierato contro «la lista di proscrizione« di Rosy Bindi. Ha fatto scudo su De Luca del quale, un anno e mezzo, fa diceva: «Andrebbe commissariata la deluchiana federazione di Salerno». Presidente e mediatore, Orfini ha difeso l’Italicum arrivando ad attaccare il suo ex leader Bersani. In nome del Jobs Act se l’è presa con i compagni che non avevano votato il testo: «Primedonne vittime di protagonismo a fini di posizionamento interno». Renzi lo ha mandato avanti in mezzo al fango di Mafia Capitale, per blindare la giunta Marino e ricostruire quel che resta del partito romano.
Il Foglio lo ha definito «un incrocio tra Fabio Fazio e Walter Veltroni». Secondo Andrea Scanzi assomiglia a Fabris del film Compagni di scuola. Paragoni a parte, Matteo Orfini è l’uomo forte del Pd a Palazzo e fuori. In televisione ci va senza cravatta. Misurato ma tagliente, non si tira indietro se c’è da fare a sportellate con Peter Gomez o Matteo Salvini. Ma fuori dagli studi tv l’altro Matteo è un archeologo, ha una figlia, vive al Tufello. Ama i Pearl Jam e al Loden di Monti contrapponeva «un giubbino sportivo verde, collezione autunno inverno di Decathlon, ho speso 39 euro, guardo le offerte». L’adolescenza al liceo classico della Roma bene, il Mamiani. Già a 14 anni però, comincia la militanza politica. La tessera dei Ds, l’attivismo nel quartiere, le campagne elettorali nei mercati. Orfini ha fatto tutte le tappe del cursus honorum. In vista delle elezioni 2013 avrebbe avuto il posto garantito nel listino bloccato, era nella segreteria di Bersani. Ha voluto misurarsi col territorio facendo le primarie per i parlamentari. Cinquemila preferenze e la strada spianata verso Montecitorio.
Ha fatto tutte le tappe del cursus honorum, era nella segreteria di Bersani e aveva il posto garantito per Montecitorio. Ma ha voluto fare le primarie incassando 5mila preferenze
Susanna Mazzà, avvocato, è la segretaria del circolo Pd Mazzini, quello in cui Orfini è cresciuto. «Sempre presente alle riunioni, ai direttivi, ai volantinaggi. Coinvolgeva tutti. Se c’era bisogno prendeva la scopa e riordinava la sezione. Ha fatto le campagne elettorali a testa bassa e senza spocchia, è un combattente». Fu di Matteo l’intuizione di mettere un biliardino sul marciapiede la domenica mattina per coinvolgere il quartiere. Qui i militanti lo ricordano con larghi sorrisi, dicono che la carriera se l’è meritata. «Ti trascinava, si prendeva molti rischi». Come quando fece confluire in un grande immobile la sezione del partito, il sindacato, i Comunisti e le associazioni di centrosinistra. Una sorta di coalizione fisica, tutta dentro una maxisede. Al circolo Mazzini ricordano quando durante la campagna elettorale di Lilli Gruber per le europee, Orfini «la buttò» al Serpentone di Corviale, un palazzone nell’estrema periferia romana, «facendola giocare a pallone».
Ex dalemiano, si diceva. Del lider Massimo è stato stretto collaboratore, ha lavorato alla fondazione Italianieuropei e per la creatura dalemiana ha pubblicato articoli fino a qualche mese fa. Il tempo passa, le idee cambiano soprattutto in politica. Nel 2013 Orfini diceva: «Il ghostwriter di Renzi è il D’Alema di vent’anni fa. A occhio il conservatore è lui. Con l’aggravante che conserva un modello già fallito». Non è un mistero, in passato il giovane turco navigava in acque diverse da quelle del rottamatore. Nel 2012 il giudizio non lasciava scampo a equivoci: «Renzi è l’ultimo di una generazione datata, non il primo di una nuova. Sulla Fiat sta con Marchionne, sulla Pubblica Amministrazione fa uscite alla Brunetta, si pone come il processore di una politica che una parte della classe dirigente del centrosinistra ha messo in campo negli anni 90 e che oggi in tutto il mondo viene considerata fallimentare. Da questo punto di vista Renzi non è un rinnovatore. Si pone in continuità con molti di quelli che vuole rottamare».
Orfini nel 2012: «Il ghostwriter di Renzi è il D’Alema di vent’anni fa, a occhio il conservatore è lui. Con l’aggravante che conserva un modello già fallito».
Stesso anno, altra intervista. «Io la penso in maniera diametralmente opposta da Matteo Renzi, lui ama il liberismo vintage e pensa che ce ne voglia molto di più, io credo che proprio il cedimento a quell’ideologia abbia prodotto i risultati negativi». Alle primarie del 2013 Orfini sostiene Cuperlo. «Renzi e io siamo geograficamente ai poli opposti del Pd». Il 2014 è l’anno della svolta, quello di un avvicinamento tra le parti. Qualcuno lo definisce «un patto non scritto» che apre un canale dialogo sempre più fruttuoso tra una parte dei giovani turchi e il nuovo segretario rottamatore. Orfini scatta e spiazza le altre minoranze. Rivendica i successi della sua componente e riconosce a Renzi un cambio di rotta rispetto alla linea economica proposta agli albori del renzismo.
Oggi Orfini siede al tavolo del premier, spettano a lui i dossier caldi. La questione romana, ad esempio, è una patata bollente che in pochi gli invidiano. Chiamato a far pulizia nel partito tra capibastone, «guerra di bande» e relazioni pericolose, deve difendere un sindaco che non brilla per popolarità. Dalle intercettazioni di Mafia Capitale è emerso pure che Buzzi, in un occasione, pagasse gli stipendi dei dipendenti del Pd romano. «Orfini non se n’è accorto?», è il ritornello delle opposizioni. Dal canto suo il commissario ha battuto tutti i quartieri della Città Eterna. Dalla famosa assemblea pubblica del Laurentino 38 alle iniziative sul litorale. Vara nuove regole per il tesseramento, accorpa i circoli, ridimensiona le Commissioni consiliari in Campidoglio. Ha fatto la radiografia del territorio: a Ostia ha mandato il senatore Stefano Esposito, a Tor Bella Monaca Gennaro Migliore. A Fabrizio Barca ha affidato la mappatura dei circoli, ne è uscita una “relazione intermedia” piuttosto cruda. Nella tempesta di Mafia Capitale Orfini ha messo la faccia e le mani, provando a contrattaccare. Luigi Di Maio annuncia querela dopo la famosa frase «M5s idolo della mafia di Ostia». Alessandro Di Battista dice che Orfini è «carne da cannone» di Renzi. «Più che un commissario sembra un palo, ma glieli hanno arrestati tutti». Il frontman grillino si è prenotato anche un’ospitata televisiva dalla Gruber per rispondere, tra le altre cose, alle accuse di Orfini. Che nel dibattito pubblico continua a imporre la sua voce.
Tesseramento, circoli, commissioni. A Roma Orfini ha fatto la radiografia del territorio, chiamato a far pulizia tra capibastone, «guerra di bande» e relazioni pericolose
Più di qualcuno si chiede dove arriverà il presidente dem. Dopo un’ascesa tanto rapida e davanti a un burrone così ripido come quello del Pd romano con Mafia Capitale, oggi Orfini viaggia in maggioranza, ma domani? Susanna Mazzà, che lo conosce da tempo, assicura: «Matteo ha sempre rispettato le minoranze, anche nei momenti di scontro rimaneva una figura di garanzia». E sulla carriera non ha dubbi: «Nel nostro circolo ha tenuto insieme le persone. Non riesco a dire che oggi sia renziano, il suo non è un cambio di casacca. Lavora per l’unità del Partito, d’altronde il congresso è finito e Matteo ha ben chiaro che noi siamo uno solo».