Ventitré miliardi di euro annui. Ovvero circa l’1,5% del Pil nominale dell’Italia. Questo è l’ammontare dei risparmi degli italiani che va in fumo, bruciato dal conflitto d’interesse che permea l’industria del risparmio gestito. Non se ne parla. Molti politici ignorano il problema. Ma si tratta di un’enorme somma di denaro che potrebbe essere utilmente impiegata in altro modo.
Il nocciolo del problema
La questione è semplice: investire i risparmi comporta dei costi e, in Italia, questi costi sono eccessivi.
La questione è semplice: investire i risparmi comporta dei costi e, in Italia, questi costi sono eccessivi
Un’ampia fetta dei risparmi investiti va infatti a remunerare chi consiglia e vende prodotti finanziari e ha la relazione diretta con il cliente: reti bancarie e di promotori e, in generale, i cosiddetti “distributori”. Questi soggetti percepiscono circa due terzi delle commissioni pagate dai loro clienti: queste somme si chiamano “retrocessioni”, oppure “incentivi”, o rebates. Tanto più alta è la commissione di gestione, tanto più loro guadagnano con le retrocessioni. È intuibile come questo sistema non sia il più efficiente per i risparmiatori. Viene infatti remunerata principalmente la rendita di posizione di chi ha la relazione con il cliente. Chi invece crea e gestisce prodotti finanziari come i fondi comuni, per venderli ai risparmiatori è obbligato a passare dal giogo delle retrocessioni e tenersi gli avanzi. I risparmiatori, invece, pagano il conto per tutti.
Consapevole del problema, l’amministrazione Obama sta affrontando di petto la faccenda negli Usa
Ma attenzione, questo delle retrocessioni non è soltanto un problema individuale del risparmiatore, che certo preferirebbe un po’ più di performance: è un grave problema per l’intera collettività.
Perché quella porzione di risparmi che va nelle tasche di pochi potrebbe invece tradursi in pensioni più alte, minore concentrazione della ricchezza e maggiori investimenti produttivi. Consapevole di questo, l’amministrazione Obama sta affrontando di petto la faccenda negli Usa (dove esiste un problema analogo), lavorando a un piano per cambiare la normativa che regola il settore. Queste sono le significative parole di Barack Obama:
«I consulenti finanziari si meritano di essere pagati, certo, ma non dovrebbero essere messi nella condizione d’approfittare dei loro clienti».
Ma ora vediamo quanto costa all’Italia e ai suoi risparmiatori questo sistema inefficiente e feudale. Non pretendo precisione assoluta, ma vorrei una stima ragionevole di questo costo sociale poco conosciuto, giusto per inquadrare la portata del problema.
Il costo del conflitto d’interesse per i risparmiatori
Come stima del costo ho utilizzato l’ammontare cumulativo delle commissioni retrocesse ai collocatori (ossia i venditori di prodotti finanziari), cioè il totale delle retrocessioni pagate su fondi comuni, gestioni patrimoniali, prodotti assicurativi come le polizze unit-linked e le gestioni separate, fondi pensione e altri prodotti previdenziali.
Come stimare l’ammontare complessivo delle commissioni retrocesse? Occorrono tre tipologie di dati:
1. il patrimonio gestito per ciascuna categoria di prodotti (fondi comuni, fondi pensioni, gestioni patrimoniali, ecc);
2. l’ammontare di commissioni pagate dai risparmiatori per ciascuna tipologia di prodotto;
3. il tasso di retrocessione delle commissioni ai collocatori.
Poi occorre calcolare l’ammontare di retrocessioni per ciascuna tipologia d’investimento, dato da:
patrimonio gestito x commissione annua x tasso di retrocessione.
A questo punto, sommando i risultati per le varie tipologie di prodotti s’ottiene il risultato cercato.
Spendo qualche parola sulla metodologia, perché è rilevante. È impossibile (almeno per me) venire in possesso di tutti i dati per le migliaia e migliaia di prodotti d’investimento collocati in Italia. Ci si basa quindi su dati medi, ampi aggregati, survey. Inoltre, per alcune tipologie di investimenti i dati sono scarsi. Perciò, affrontando la questione con onestà intellettuale, occorre considerare esplicitamente la natura probabilistica e campionaria del problema, raccogliere tutte le informazioni disponibili) e procedere a una stima. Io ho utilizzato una procedura d’inferenza Bayesiana – e, per semplicità, ho descritto aspetti metodologici e fonti (che includono Morningstar, Assogestioni, Covip) in questo documento maggiormente tecnico, pubblico, ma separato.
Il valore medio del “monte retrocessioni” che approssima il costo dell’inefficiente modello di business italiano dell’industria del risparmio gestito è pari a 23 miliardi di euro annui
Ma veniamo ai risultati: il valore medio del “monte retrocessioni” che approssima il costo dell’inefficiente modello di business italiano dell’industria del risparmio gestito è pari a 23 miliardi di euro annui. Una cifra sbalorditiva. Giusto per metterla a fuoco, sappiate che corrisponde a oltre un quarto della spesa per interessi dell’Italia nel 2014. Oppure, a circa la metà dei risparmi accumulati dagli italiani nel 2013 (v. “La ricchezza degli italiani”, Banca d’Italia, 12/2014). Non sono propriamente briciole. Il grafico mostra la distribuzione del costo tra le varie categorie d’investimenti.
Vorrei commentare questi dati, arricchendoli con altre informazioni.
Il grosso delle retrocessioni proviene da prodotti assicurativi. Non stupisce: sono prodotti meno trasparenti di altri
· Il grosso delle retrocessioni proviene da prodotti assicurativi, pari al 36% del patrimonio gestito secondo il Cubo Assogestioni. Non stupisce: sono prodotti meno trasparenti di altri, sicché è più semplice farcirli di commissioni. Godono perciò di largo favore tra i collocatori perché, come dicono in gergo, sono “prodotti ricchi” (per loro, ovvio). Seguono poi i fondi comuni (veicoli assai più trasparenti), pari al 44% delle masse gestite, e infine le gestioni patrimoniali.
· Trattandosi d’una stima probabilistica, posso individuare qual è l’intervallo (che in statistica Bayesiana è detto “intervallo credibile”) nel quale sono al 90% “sicuro” ricada il costo: va dai 17 ai 31 miliardi di euro. Tanti soldi, comunque si guardi al problema.
· Rapportando le commissioni di retrocessioni alle masse gestite si ricava la commissione media retrocessa: è dell’1,3%. Combinata con le percentuali di retrocessione, si ottiene la commissione media di gestione totale, pari a 1,9% all’anno. Con i Btp decennali che rendono l’1,8% annuo, è immediato capire che si tratta di un costo molto elevato.
· Probabilmente questo esercizio sottostima il costo dell’attuale sistema di collocamento dei prodotti finanziari: sono esclusi i dati non presenti nel Cubo Assogestioni, in primis certificati, obbligazioni bancarie e strutturati. Mancano anche altri dati commissionali, ad esempio le eventuali commissioni d’ingresso. Aggiungo che una parte di queste commissioni viene riversata in Irlanda e in Lussemburgo, dove si sono trasferite diverse “fabbriche prodotto”, con il risultato di sottrarre denaro al circuito economico italiano –incluso il fisco.
Una parte di queste commissioni viene riversata in Irlanda e in Lussemburgo, con il risultato di sottrarre denaro al circuito economico italiano, incluso il fisco
Qualcuno potrebbe obiettare che non è corretto stimare il costo dell’inefficienza dell’industria del risparmio con le retrocessioni, perché queste spesso includono la consulenza finanziaria. Sarei ben contento di rispondere che la consulenza finanziaria, se autentica, va offerta e pagata separatamente, solo se il cliente la vuole. Infrattare la consulenza finanziaria nelle pieghe di un prodotto non è una pratica pulita, come ben sanno i regulator europei che con la direttiva Mifid 2 stanno cercando di sradicare questa piaga. Tanto più che ormai esistono molti prodotti di risparmio gestito con commissioni di gestione contenute, in quanto senza retrocessioni (Etf, fondi quotati in Borsa, classi commissionali destinate all’acquisto diretto da parte dei risparmiatori). Sicché, chi desidera davvero la consulenza finanziaria può trovarla e pagarla a parte, a prezzi di mercato, evitando un servizio all inclusive spesso caro e non sempre di qualità.
L’impatto sulla collettività
Parliamo di 23 miliardi che escono annualmente dalle tasche dei risparmiatori e finiscono nelle tasche di chi opera nell’industria del risparmio gestito, siano essi dipendenti degli intermediari finanziari, liberi professionisti come i promotori finanziari o azionisti delle società. È davvero un problema? Ritengo di sì: ecco qualche spunto.
· Se quei 23 miliardi restassero ai risparmiatori, questi potrebbero investire somme maggiori. Aumentando prima di tutto il risparmio previdenziale, un’enorme criticità per un’Italia che stenta a pagare le pensioni, oggi e ancor più negli anni a venire, vista la sfavorevole dinamica demografica ed economica del nostro Paese.
· Con strutture distributive più efficienti di quelle attuali (spesso ipertrofiche), i livelli commissionali sarebbero sensibilmente inferiori e pertanto le performance dei portafogli dei risparmiatori migliorerebbero, a beneficio della ricchezza futura. Considerate che, con 50mila euro investiti, 1,3% di commissioni annue risparmiate (quelle delle retrocessioni) comportano 7.000 euro di ricchezza in più dopo 10 anni – i costi contano e nel medio-lungo periodo la capitalizzazione composta ha effetti straordinari.
· Non è difficile immaginare modi efficaci per convogliare i (potenziali) maggiori risparmi degli italiani verso investimenti a favore della ripresa economica di questa stanca penisola.
· Rinnovando il modello di distribuzione dei prodotti finanziari, oggi focalizzato su risparmiatori con ingente patrimonio, sarebbero verosimilmente serviti meglio anche i piccoli e medi risparmiatori, grazie a un miglior utilizzo della tecnologia e del web. Un bene per i risparmiatori e per chi andrebbe a offrire loro servizi finanziari innovativi, a costi ragionevoli.
· Numericamente, i risparmiatori sono superiori agli addetti all’industria del risparmio: quindi se questi 23 miliardi di euro restassero ogni anno nelle tasche dei risparmiatori, vi sarebbe un verosimile effetto redistributivo in termini di ricchezza.
Nulla di personale nei confronti di reti bancarie e promotori: è il modello di business prevalente ad essere antiquato, inefficiente, poco scalabile. E quindi costoso. Un po’ d’innovazione nel settore farebbe un gran bene non solo ai risparmiatori, ma anche all’industria stessa.
Il Governo italiano dovrebbe occuparsi costruttivamente del mondo dei risparmi, affrontando frontalmente questa faccenda, cruciale sia dal punto di vista economico che sociale. Per il bene dell’Italia. E dei risparmiatori italiani: piantandola di considerarli solo bovini da mungere.