La sentenza della Consulta non salverà una Pa sprecona e senza soldi

La sentenza della Consulta sugli statali

La Corte Costituzionale ha fatto tirare un sospiro di sollievo al governo. Il blocco della contrattazione nel pubblico impiego deciso dal decreto legge 78 del 2010, e sin qui prorogato da tutti i governi successivi, è stato definito dalla Corte illegittimo, ma solo se perdura. In altre parole è un’“illegittimità sopravvenuta”, come si dice in gergo giuridico. Vale per oggi e domani, non per gli anni atrascorsi. Per il governo e per noi contribuenti significa non dover mettere mano a 35 miliardi di euro a cui sarebbe ammontato, secondo le stime del MEF esposte alla Corte dall’Avvocatura dello Stato, il recupero integrale dei contratti pubblici non rinnovati. Una buona notizia, dunque? Un sì con molti “ma”, è la risposta da dare.

Innanzitutto, appare sempre più ondivaga la linea dell’attuale Corte Costituzionale in merito alla valutazione degli effetti sulla finanza pubblica delle sue decisioni, e cioè del rispetto dell’articolo 81 della Costituzione. Pochi mesi fa, la Corte cassò come illegittima la Robin Tax, una tassa ad aziendam sui profitti energetici inventata da Tremonti: ma stabilì che i quasi 10 miliardi di euro incassati dallo Stato in 3 anni non andavano restituiti alle imprese. L’irretroattività è stata però abbandonata e capovolta nella recente sentenza sulla mancata perequazione negli anni 2012 e 2013 delle pensioni superiori a 3 volte il trattamento minimo INPS, e di conseguenza il governo ha dovuto metter mano a un rimborso del pregresso, sia pur parziale in linea al dispositivo della Corte. Ora torniamo invece all’irretroattivià. Che sarabanda. Serve un oscilloscopio, per orientarsi nella mutevolezza d’indirizzo di questa Corte.

Appare sempre più ondivaga la linea dell’attuale Corte Costituzionale in merito alla valutazione degli effetti sulla finanza pubblica delle sue decisioni, e cioè del rispetto dell’articolo 81 della Costituzione

Leggeremo il dispositivo della sentenza, ma fuor dai tecnicismi va detto: a legge immutata, definire un atto legittimo ieri e illegittimo domani è qualcosa che dovrebbe appartenere alle scelte del legislatore, non di una Corte costituzionale. E’ vero che il diritto abbonda di categorie interpretative per definire l’illegittimità sopravvenuta di un atto: la congruità, proporzionalità e il sommarsi nel tempo dei suoi effetti. Ma sono appunto categorie “politiche”, di valutazione discrezionale, non discendono dalla Costituzione. Solo il Parlamento, in virtù dell’articolo 81 della Costituzione, può assumere decisioni in ordine alla copertura dei costi del pubblico impiego, scriveva Luigi Einaudi il 19 luglio 1949. Altri tempi, direte voi. Ma era Luigi Einaudi, e Dio solo sa quanti guai ci saremmo risparmiati nei decenni se gli avessimo dato più retta.

Detto questo, cerchiamo di capire a che cosa il governo è obbligato ora, a seguito della sentenza. A una sola cosa, che però gli cambia i conti. E’ tenuto a risedersi al tavolo coi sindacati, per rinnovare i contratti pubblici. L’ultimo rinnovo è del 2005, governo Berlusconi con Domenico Siniscalco al MEF. Allora il contratto era quadriennale per la parte economica, biennale per quella normativa. Il contratto concesse aumenti medi retributivi del 5,1%. Poi venne la riforma Brunetta del 2009 con durata triennale del contratto pubblico per la parte economica. Ma nel 2010 intervenne il blocco. Un blocco che anche la legge di stabilità del governo Renzi, a dicembre scorso, ha prorogato per un anno (non impedisce variazioni retributive di singoli dipendenti, né si riferisce al trattamento accessorio relativo all’ammontare erogato nel 2010, e a eventuali aggiunte votate dal Parlamento). Il DEF di aprile presentato dal governo Renzi prevedeva che il blocco continuasse anche nel 2016. La sentenza della Corte obbliga dunque a trovare la copertura per i nuovi contratti, se comporteranno aumenti di spesa.

Per capire di quanti miliardi può trattarsi diamo un occhio agli effetti che il blocco contrattuale – insieme a quello del turn over del personale – ha esercitato sulla spesa pubblica. Dai 172 miliardi del 2010, la spesa in retribuzioni pubbliche è scesa a 164 miliardi dal 2013, stabilizzandosi da allora. Diminuendo in termini reali mentre il resto della spesa corrente, sia pur a tassi inferiori del passato, è continuata a salire, è in realtà l’unica grande voce di spesa ad aver dato un tale contributo positivo ai saldi pubblici (l’altro comparto riguarda la spesa per investimenti pubblici, scesa del 27% rispetto al pre-crisi). La deflazione e comunque le basse prospettive attuali d’inflazione impediscono di pensare a chissà quali aumenti per recuperare il costo della vita. Ma in 6 anni la botta c’è stata, i prezzi al consumo sono aumentati dell’1,8% nel 2010, del 3,2% nel 2011, del 2,3% nel 2012, dello 0,6% nel 2013 prima di quota 0 nel 2014. I sindacati non accetteranno mai di non chiedere parte del pregresso, a cui bisognerà aggiungere dell’altro per gli anni a venire.

Se ci fermassimo ad aumenti del 4% medi retributivi nel prossimo contratto recuperando anche parte del passato, rispetto a 164 miliardi di monte-salari gli aggravi per la finanza pubblica da coprire in legge di stabilità sarebbero pari a 8 miliardi in 3 anni. Tenete conto che nel DEF di aprile, SENZA PREVEDERE RINNOVI CONTRATTUALI, per effetto del freno al blocco del turn over COMUNQUE già sui prevdevano aumenti di spesa sul monte salari pubblici da 164 miliardi a +1,6mld in 2016, +4,1 nel 2017 e +6,6 nel 2018. Se sommate le cifre, aggioungete la clausola fiscale da 16 miliardi che il governo deve evitare nel 2016, la reversecharghe bocciata dalla ue che obbliga ad altri 8-900 milòioni da coprire etc etc, la prossima legge di stabilità è un’equazione a moltissime incognite. Forse al MEF la vera speranza – tanto per cambiare – è che alla luce della vicenda greca Bruxelles non ci rompa le scatole, se restiamo ancora una volta allegramente sopra il 3% di deficit a differenza di quanto promesso.

Servono contratti pubblici disegnati per dare gambe concrete a una PA in linea coi tempi

Certo, il governo ha l’obbligo di contrattare, non di concedere aumenti. O meglio, potrebbe graduali in modo da non aggravare la finanza pubblica. Uno degli effetti del blocco è stato quello di aver diminuito il vantaggio delle retribuzioni pubbliche rispetto a quelle private: la proporzione aveva toccato un massimo di 1,35 a favore del pubblico nel 2005, e grazie al blocco è scesa a 1,22 nel 2014. Ma il vantaggio pubblico resta rispetto ai dipendenti privati: in media la retribuzione pubblica lorda 2014 è stata di poco superiore ai 32 mila euro, rispetto ai 30mila del dipendente privato. Ma poiché stiamo parlando di medie, non dimentichiamo un particolare essenziale. L’abnormità delle retribuzioni pubbliche – che fa salire la media – è rappresentata dai compensi dei dirigenti. Le slides di Cottarelli, ad aprile 2014, puntavano il dito contro il fatto che i dirigenti apicali pubblici italiani hanno una retribuzione pari a 12,6 volte il reddito procapite medio degli italiani, rispetto a un multiplo pari a 4,9 in Germania e a 6,4 in Francia. Quelli di prima fascia, hanno una retribuzione pari a 10,1 volte il reddito procapite degli italiani, rispetto a 4,2 volte in Germania e 5,2 in Francia. E’ sicuramente un punto sul quale il governo può intervenire, rispetto alla gran numero di dipendenti pubblici che stanno invece sotto la linea della parità rispetto ai privati.

Ma, al di là delle considerazioni sugli effetti di finanza pubblica, la sentenza della Corte offre una grande occasione al governo. In realtà, l’intero impianto della riforma della PA del governo Renzi, appena arrivata tre settimane fa alla Camera dopo un lunghissimo parto in Senato, non è concepibile se non viene incardinato in nuovi contratti pubblici. A cominciare proprio dalla dirigenza pubblica, visto che abbiamo 65.666 dirigenti statali con 8 contratti diversi, e ancor oggi con retribuzioni di risultato date a pioggia ed egualmente (esempio: centinaia di dirigenti di IIa fascia al MEF prendono tutti 6.879 euro di retribuzione di risultato, tutti uguali: ma perché mai?). Idem dicasi per la mobilità dei dipendenti pubblici non dirigenti, e per la valutazione del loro merito e dei relativi premi retributivi. O per i 55mila incarichi nelle sole controllate pubbliche in capo ai Comuni italiani.

L’intero impianto della riforma della PA del governo Renzi, appena arrivata tre settimane fa alla Camera dopo un lunghissimo parto in Senato, non è concepibile se non viene incardinato in nuovi contratti pubblici

La riforma Madia tocca ciascuno di questi aspetti: ma per entrare concretamente nell’ordinamento italiano, al di là della raffica di decreti attuativi che saranno necessari quando il Parlamento riuscirà ad approvarla, servono appunto contratti pubblici disegnati per dare gambe concrete a una PA in linea coi tempi. Se questo sarà l’intento riformatore, i nuovi contratti pubblici a cui la Corte obbliga non saranno solo un confronto retributivo e su come evitare che appesantisca ulteriormente il contribuente. Saranno il cantiere vero di una PA meno ostile alla crescita, più trasparente ed efficiente. Il governo ora è costretto a provarci.

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