Il 21 gennaio del 1968, un B-52 dello Strategic Air Command – il potente settore dell’aviazione militare Usa responsabile della gestione e del controllo dei bombardieri armati di bombe nucleari e dei missili balistici intercontinentali – stava compiendo lenti e noiosi cerchi nel cielo sopra la base statunitense di Thule. La base, milleduecento chilometri a nord del Circolo polare artico, si trovava – e si trova – nel nordovest della Groenlandia, in uno dei territori più inospitali del mondo.
Il “Thule monitor” doveva solo raggiungere il nordovest della Groenlandia e disegnare una serie di 8 nei cieli sopra la Thule Air Base
Era anche l’avamposto militare che, secondo gli analisti, sarebbe stato attaccato per primo dall’Unione Sovietica in caso di offensiva. Per questo, nel corso degli anni Sessanta, le autorità militari statunitensi decisero che valeva la pena impiegare diversi bombardieri B-52 per sorvegliare ventiquattr’ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni l’anno, la Thule Air Base. Partito dagli Stati Uniti, il cosiddetto “Thule monitor” non doveva far altro che raggiungere il nordovest della Groenlandia e disegnare una serie di 8 nei cieli sopra la struttura, tenendo d’occhio la base: per assicurarsi, letteralmente, che fosse ancora lì. I bombardieri che facevano da “Thule monitor” trasportavano testate nucleari, pronti a dirigersi verso l’Unione Sovietica in caso di rappresaglia necessaria, ed erano parte del più ampio programma di pattugliamenti in volo da parte di bombardieri armati di bombe H noto come airborne alert.
Il programma presentava rischi evidenti: nel 1961, pochi giorni dopo l’insediamento alla presidenza di John Fitzgerald Kennedy, un B-52 che doveva pattugliare la costa orientale degli Stati Uniti aveva perso il suo carico nei cieli della North Carolina e si era arrivati vicinissimi a un’esplosione nucleare sul suolo americano; nel 1966, un altro bombardiere – questa volta destinato al periplo del Mediterraneo – era caduto al largo della costa spagnola e aveva perduto una bomba in fondo al mare, contaminando anche con il plutonio un’area vicino al paesino di Palomares.
Quel 21 gennaio, il “Thule monitor” al comando di John Haug trasportava quattro bombe nucleari Mark 28. Per rendere più comodo il volo, uno dei copiloti, Alfred “Joe” D’Amario – un trentottenne di Baltimora che era nell’aviazione da sedici – aveva messo alcuni cuscini di spugna sotto uno dei sedili. In cabina, inoltre, faceva molto freddo, e D’Amario decise di sfruttare il sistema di riscaldamento che usava un getto d’aria molto calda dal motore. Dopo circa mezz’ora, qualcuno cominciò a sentire puzza di bruciato: i cuscini di spugna avevano preso fuoco.
L’equipaggio usò due estintori per cercare di spegnerlo, ma senza riuscirci, e Haug chiese alla torre di controllo di Thule il permesso per un atterraggio di emergenza. Prima di riuscire a completare la discesa, l’incendio era fuori controllo e il fumo in cabina non permetteva di vedere la strumentazione.
L’aereo sorvolò la base, proseguì ancora per qualche chilometro e si schiantò nel canale di Bylot, allora ghiacciato
Erano le quattro e mezza del pomeriggio, nonostante la totale oscurità che circondava la base in quel periodo dell’anno – Thule è più o meno in mezzo tra il Circolo polare artico e il Polo Nord – e la temperatura a terra era di meno trenta gradi centigradi. Dopo aver portato l’aereo il più vicino possibile alla base per aumentare le possibilità di sopravvivenza sue e dell’equipaggio, dato che pochi minuti tra i ghiacci della Groenlandia potevano essere fatali, Haug azionò il sedile eiettabile per ultimo, a sei chilometri e mezzo dalla pista.
L’aereo sorvolò la base, proseguì ancora per qualche chilometro e si schiantò nel canale di Bylot, coperto da uno strato di ghiaccio spesso più di mezzo metro. L’esplosione scosse la base. D’Amario finì paracadutato a poca distanza dalla pista e poté dare l’allarme e far partire i soccorsi: lui e Haug raggiunsero terra incolumi. Gli altri cinque membri dell’equipaggio vennero ritrovati nelle ventiquattr’ore successive: l’ultimo, il navigatore 43enne Curtis Criss, perse entrambi i piedi a causa del congelamento. Leonard Svitenko, uno dei copiloti, morì nel tentativo di lasciare l’aereo e il suo corpo venne trovato otto ore dopo l’incidente.
Il B-52, che poco prima dello schianto aveva effettuato un rifornimento in volo, impattò a più di novecento chilometri all’ora. L’esplosivo ad alto potenziale delle quattro bombe all’idrogeno Mark 28 detonò, dando fuoco a migliaia di litri di carburante. Dalla base, a undici chilometri di distanza, si potevano vedere distintamente le fiamme alzarsi dal ghiaccio nella notte artica, un incendio che si consumò da solo dopo diverse ore.
Non ci fu, fortunatamente, un’esplosione nucleare: nella progettazione più comune di una bomba atomica, l’esplosivo ad alto potenziale è posto intorno al materiale radioattivo in modo da comprimerlo con precisione chirurgica e sincronizzazione perfetta, creando le condizioni per la reazione a catena incontrollata. Se quell’esplosivo non detona esattamente come da progetto – come durante un disastro aereo – il materiale radioattivo viene semplicemente sparso nell’ambiente circostante insieme ai detriti dell’esplosione.
Una squadra di artificieri arrivò attraversando il canale di Bylot in slitta soltanto due giorni più tardi, trovando una striscia di ghiaccio annerita lunga ottocento metri e larga centosettanta (foto a sinistra). I resti dell’aereo erano sparsi per un’area di diversi chilometri quadrati.
Era l’ennesimo disastro causato dall’airborne alert, che nonostante le resistenze dello Strategic Air Command finì il giorno successivo l’incidente di Thule per decisione delle autorità americane. Ma nei dintorni della base – un territorio formalmente parte della Danimarca – ne restavano ancora segni molto tangibili: il materiale nucleare delle bombe era andato in mille pezzi, fondendosi con i resti dell’aereo e contaminando il luogo dell’incidente.
Oltre 700 militari americani e civili danesi della base lavorarono per settimane per ripulire la zona, tra venti fino a 130 chilometri all’ora e temperature tra i meno 30 e i meno 60 gradi
Cominciò così l’operazione Crested Ice – che il personale coinvolto preferiva chiamare Dr. Freezelove, una variazione sul titolo originale del film Dottor Stranamore del 1964. Oltre settecento militari americani e civili danesi della base lavorarono per settimane dopo l’incidente per ripulire la zona, tra venti fino a 130 chilometri all’ora, temperature tra i meno 30 e i meno 60 gradi e con strumenti che, in quelle condizioni, funzionavano molto male. Le operazioni, da svolgere in fretta prima del disgelo primaverile, avvennero nella totale oscurità fino a febbraio. Fu necessario portare in loco generatori e lampade per illuminare il ghiaccio.
Ghiaccio contaminato viene caricato in contenitori di acciaio durante l’operazione “Crested Ice”
Gli addetti alla rimozione dei materiali contaminati operavano senza protezione dal plutonio, visto che le maschere rendevano difficile respirare, e una volta localizzato un punto radioattivo grazie alla strumentazione lo rimuovevano a mano. Alla fine vennero rimosse oltre diecimila tonnellate di ghiaccio e neve, che furono chiuse in fusti e mandate negli Stati Uniti per lo smaltimento.
Anche nel caso dell’incidente di Thule, come per Palomares, è molto complesso valutare le conseguenze per la salute delle persone coinvolte. Nell’arco di vent’anni dopo l’incidente, circa cinquecento danesi coinvolti nelle operazioni denunciarono una serie di malattie debilitanti, tra cui il cancro e la sterilità, che associarono a Crested Ice.
Uno studio del 1987 dell’Istituto danese di epidemiologia clinica ha concluso che, tra le persone coinvolte, l’incidenza di diverse forme di cancro fu del 40 per cento superiore rispetto ad altri tremila dipendenti della base di Thule che non avevano partecipato all’operazione; nello stesso anno un altro studio dell’Istituto di epidemiologia oncologica alzò la cifra al 50 per cento rispetto alla popolazione danese, anche se concluse che l’esposizione alle radiazioni non era la causa di quella differenza.