TaccolaL’industria del futuro è inutile, se non sappiamo vendere

L’industria del futuro è inutile, se non sappiamo vendere

«Avete cambiato le fabbriche, ora cambiate l’organizzazione, perché le vendite non servono più nella tradizione che conosciamo». È il messaggio che Carlo Alberto Carnevale Maffè porta alle aziende del settore dell’automazione riunite al Teco, la fiera della meccatronica, automazione e trasmissione di potenza, dal 16 al 17 giugno a Milano. Le fabbriche cambiate sono quelle dell’industria interconnessa, che i tedeschi da un paio d’anni chiamano Industria 4.0. È un tipo di produzione sempre più automatizzato, dove i macchinari si aggiornano, dialogano tra loro e con sistemi di programmazione a distanza. Dove le fabbriche diventano sempre più piccole e flessibili e producono lotti più limitati. Dove la produzione può tornare dai Paesi in cui è stata delocalizzata, ma con un impatto tutto sommato limitato sui posti di lavoro, perché l’automazione la fa da padrona. 

Di questa nuova industria che si sta sviluppando a livello internazionale – e che vede l’Italia in una posizione teoricamente favorevole, per ragioni storiche di struttura e approccio alla produzione – si è molto parlato dal punto di vista produttivo. Ma altri aspetti che riguardano le imprese, a partire dal lato commerciale, sono stati fin qui trascurati. «Manca una teoria della domanda dell’Industria 4.0 – spiega Carnevale Maffè, che è docente di strategia e politica aziendale alla Bocconi -. L’offerta si integra e converge, ma non stiamo integrando la percezione della domanda. Se andiamo a proporre ai clienti il singolo pezzettino e non compiamo una sintesi sul lato cliente, abbiamo fatto 30 ma non 31. Non stiamo chiudendo il cerchio». 

Cosa vuol dire chiudere il cerchio? In poche parole: fare fabbrica assieme, superare il tradizionale rapporto tra fornitori e clienti, perfino ridefinire il concetto di vendita e quindi cambiare l’organizzazione delle imprese. 

Carnevale Maffè: «Non si può fare Industria 4.0 senza ridisegnare la demand chain. La mia tesi è che non si vendono più le macchine. Si comprano opzioni di produttività»

Perché, aggiunge Carnevale Maffè, «non si può fare Industria 4.0 senza disegnare la demand chain. La mia tesi è che non si vendono più le macchine. Si comprano opzioni di produttività. Quello che io e il cliente ci scambiamo non sono più delle offerte, magari su carta o file word, in cui descrivo le funzionalità tecniche di un prodotto». Facciamo un esempio: «Io ti scambio un simulatore virtuale e tu devi agganciarlo ai tuoi processi. Insieme studiamo quanto possiamo estrarre di produttività. Una volta che abbiamo fatto le simulazioni, ti fornisco l’impianto. Paradossalmente io non te lo faccio pagare, ma tu mi paghi per la produttività che ti faccio guadagnare. Perché non ha più senso, in impianti dinamici soggetti a un elevatissimo aggiornamento del software, che compri un macchinario e poi hai un contratto di manutenzione. Dobbiamo fare fabbrica insieme, questa è la novità». 

«Non ha più senso, in impianti dinamici, che compri un macchinario e poi hai un contratto di manutenzione. Dobbiamo fare fabbrica insieme, questa è la novità»

L’altra novità, per chi produce macchinari, è che se il modello tradizionale delle vendite non ha più senso, bisogna modificare l’organizzazione. «Questo cambia completamente il modello organizzativo, oltre che contrattuale. Una volta cambiate le fabbriche, bisogna cambiare l’organizzazione. Vale per l’azienda, perché le vendite non servono più nella tradizione che conosciamo. Ma vale anche per i clienti, perché gli acquisti non servono più. Le specifiche tecniche non sono più quelle del prodotto, ma sono l’esposizione di vincoli produttivi, di fattori produttivi, quindi ancora una volta dobbiamo andare andare un gradino più in alto nell’analisi dei fattori di produttività primaria: persone, tecnologie, materiali, vincoli organizzativi». 

Per il professore di strategia aziendale all’Università Bocconi, le aziende sono poco consapevoli di questi processi, «però quando le fai ragionare capiscono i benefici: la stabilizzazione del rapporto con il cliente, la collaborazione sulla ricerca e sviluppo, la stabilizzazione dei flussi finanziari. Significa migliorare uno dei problemi del settore dei beni strumentali, cioè l’instabilità». 

Il lavoro? Nessuna illusione

«Ci sarà una polarizzazione del lavoro, con pochi lavori poco pagati e molti lavori pagati pochissimo, che sono i lavori non automatizzabili»

La nuova industria sempre più automatizzata pone interrogativi ben al di là dell’organizzazione aziendale. Il primo riguarda naturalmente il lavoro. C’è da credere a chi dice che per ogni posto distrutto se ne possono creare 1,5 o 2, nei nuovi servizi? «Riprendo quello che ha appena detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco alla Cgil: ci sarà una polarizzazione del lavoro, con pochi lavori poco pagati e molti lavori pagati pochissimo, che sono i lavori non automatizzabili. Da una parte c’è un task professionale che viene sostituito da un algoritmo, di fatto una tecnologia automatizzata. Dall’altra si creano nuovi servizi, ma di basso valore aggiunto. Parliamo di cura delle persone o di un sushi bar, cioè di altri settori e non necessariamente nello stesso luogo. Il saldo del lavoro è un saldo dinamico e non si può fare una previsione precisa. A me quelli che fanno la contabilità del dare e avere fanno sorridere, perché stanno illudendo le persone». La verità, aggiunge, è che «nessuno di noi può dare garanzia che il fattore produttivo lavoro sia preservato. Il lavoro non è una variabile indipendente, mi spiace per i sindacati. Ce lo dobbiamo inventare ogni volta. Quello che è certo è che aumenta la produttività, basta pensare all’agricoltura: nel dopoguerra aveva il 50% della manodopera italiana e ora il 3,6 per cento. Eppure l’agricoltura oggi produce il triplo, con cui sfamiamo tutti e anzi esportiamo». 

Sindacati alla prova

I sindacati, oggi, danno una mano o c’è un atteggiamento di chiusura? «Come abbiamo visto nei tassisti e nella Pubblica amministrazione, i vandeani ci sono. Nella meccanica però no. Sono tutte persone che hanno visto gli ultimi 15-20 anni che un atteggiamento di chiusura danneggia solo loro. E che invece ha capito che l’automazione può invertire il ciclo della delocalizzazione. Può aiutare quindi non tanto a creare posti di lavoro, ma a redistribuire la catena del valore aggiunto. Ogni redistribuzione del valore aggiunto comporta delle minacce ma anche opportunità. Se c’è un team sindacale che capisce queste cose è quello dell’industria dell’automazione, perché la gran parte di coloro sta nelle fabbriche e fa assistenza e manutenzione in giro per il mondo si è globalizzata, si è aperta a modelli di produttività internazionali e ha capito l’antifona». 

«Se c’è un team sindacale che capisce queste cose è quello dell’industria dell’automazione»

Di certo le innovazioni saranno per tutti. Le Pmi, in particolare sono quelle che più pagano i grandi processi di cambiamento. Tuttavia, avverte Carnevale Maffè, «stiamo sbagliando a definire cos’è Pm, piccola e media. Ci può essere un’azienda che come dimensione di fatturato è molto piccola ma ha un livello di tecnologia e informazione elevata. Non dobbiamo guardare alla dimensione dell’impresa in termini di fatturato, dobbiamo guardare al livello di formalizzazione dell’impresa cliente: quelle altamente formalizzate usano software e protocolli standard. Quelle poco formalizzate non ce la fanno a sviluppare un modello che presuppone una sintassi molto rigorosa. Mentre prima bastava un fax e il coordinamento era informale, c’erano dei vantaggi e svantaggi derivati dalla dimensione. Adesso i vantaggi e svantaggi sono derivati dalla formalizzazione dei processi». 

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