«Nonostante tutto, il mito del microcredito come strumento “buono” per combattere la povertà, resiste. Nonostante, soprattutto, il fatto che non sia vero». Sono parole di Jason Hickel, antropologo della London School of Economics. Riassumono quello che, negli ultimi sei anni, è stato un vero e proprio cambiamento di rotta nei confronti del microcredito. «L’idea prometteva un’elegante soluzione win–win al problema della povertà del mondo: la sradicava, senza andare a toccare le strutture politiche e di potere, senza che costasse nulla e soprattutto, facendo guadagnare chi dava i prestiti». Troppo bello per essere vero.
Tutto, in teoria, avrebbe dovuto funzionare. La Grameen Bank, istituita dal premio Nobel bengalese Muhammed Yunus nel 1983, si distingue come pioniere nel campo. Elargisce finanziamenti di modestissima entità (le proporzioni variano, sono anche al di sotto dei 100 dollari) per sostenere gli investimenti di singoli e di famiglie troppo povere per accedere alle reti di prestito tradizionali. Per Yunus è una battaglia contro «l’apartheid del credito». Esclusi dal sistema finanziario, i poveri sarebbero stati condannati a restare poveri. La Grameen Bank, invece, allarga il bacino del credito e permette ai beneficiari del prestito di cominciare un’attività imprenditoriale – in senso lato: anche vendere cibo cotto per strada rientra nella definizione.
Gli obiettivi del microcredito, esplicitati nel Summit internazionale del Microcredito, sono molto ambiziosi: aiutare i più poveri, assicurare un miglioramento misurabile nelle loro vite, creare delle istituzioni in grado di autosostenersi dal punto di vista finanziario e dare più potere alle donne, aiutandone l’emancipazione – soprattutto economica.
Ma la domanda è un’altra: il metodo è efficace? Esistono senza dubbio dei casi di successo. Come scrive David Roodman, del Center for Global Development, nel suo libro Due Diligence, an Impertinent Inquiry into Microfinance, Muhammad Yunus ama raccontare la storia di Murshida, «nata in una famiglia povera, con sette fratelli, sposata a 15 anni con un uomo di un villaggio vicino che lavorava come operaio generico». Quando Murshida ebbe figli, «arrivarono i problemi. Le spese aumentavano, e i soldi diminuivano, anche perché il marito scommetteva, perdendo tutto». Persero anche il tetto, che aveva impegnato al gioco. Con la stagione delle piogge tutta a casa si allagò. «Quando Murshida provò ad affrontarlo, lui la picchiò e la cacciò di casa». A quel punto, per lei e per i suoi figli, l’unica soluzione era avere del contante immediato. A questo provvide la Grameen Bank. Con la somma accordata creò un piccolo commercio tessile, che nel giro di pochi anni divenne una vera e propria fabbrica, «con cui dava lavoro ad altre 25 donne». Ripagò il debito e fece profitti. La storia, insomma, è finita bene: una donna povera è uscita dalla miseria e dal biasimo sociale di rimanere senza marito.
Gli obiettivi del microcredito sono molto ambiziosi: aiutare i più poveri, assicurare un miglioramento misurabile nelle loro vite, creare delle istituzioni in grado di autosostenersi dal punto di vista finanziario e dare più potere alle donne, aiutandone l’emancipazione – soprattutto economica
In realtà, la questione è più complessa. Secondo diversi studi, il microcredito non ha alcun effetto salvifico. Prima di tutto, non aiuta le persone a uscire dalla povertà. «L’impatto medio – scrive Roodman – è prossimo allo zero». In molti casi, poi, vengono applicati tassi di interesse altissimi (giustificati dal rischio e, soprattutto, dalla difficoltà fisica di consegnare il denaro), e che variano da una media del 12% annuale in Etiopia a un 110% in Messico. Il Banco Compartamos può applicare anche tassi del 200%. Questo spesso induce il debitore, che non è in grado di ripagare il debito, a contrarre ulteriori debiti o, in altri casi, a vendere i beni a disposizione, compresi quelli acquistati per iniziare l’attività produttiva (per cui la casa e la mucca). Si entra in una spirale di debito che ottiene l’effetto opposto: aumenta la povertà. Nel peggiore dei casi, come è avvenuto nel 2010 nel villaggio indiano di Adhra Pradesh, i contadini che non riuscivano a ripagare il debito, dal momento che l’istituto aveva posto come garanzia un’assicurazione del pagamento in caso di morte, hanno scelto di suicidarsi per evitare che venisse sottratta la casa alla famiglia. Come si sintetizza qui, non è «né un miracolo né un miraggio». Di sicuro, non conduce fuori dalla povertà.
Questo avviene per diversi motivi. Come spiega a Linkiesta Alberto Lanzavecchia, professore di Corporate Finance all’Università di Padova, il problema è che «il denaro, di per sé, non è mai produttivo. È il modo in cui viene impiegato che lo rende produttivo, l’attività». Per questo motivo, spiega, «esistono, anche nel microcredito, degli investimenti “buoni” e degli investimenti “cattivi”». La dinamica è la stessa dei prestiti degli istituti creditizi tradizionali. «Si deve valutare bene a quale attività intende dedicarsi il beneficiario del prestito. L’agricoltura, che è per definizione stagionale, non è un buon investimento, perché non permette un risultato costante. È anche molto rischiosa perché dipende dalle condizioni climatiche». Altre attività, invece, «permettono risultati più immediati e più costanti. Anche solo cucinare e vendere cibo per strada rientra in questa categoria. O sfruttare vecchi binari per inventarsi un sistema di trasporto alternativo. Non deve essere una cosa per forza innovativa».
«Il denaro, di per sé, non è mai produttivo. È il modo in cui viene impiegato che lo rende produttivo, l’attività». Per questo motivo, spiega, «esistono, anche nel microcredito, degli investimenti “buoni” e degli investimenti “cattivi”»
Si tratta, comunque, di attività “imprenditoriali”, ma «non ci si deve legare a un’idea occidentale di imprenditore, con fabbrica. Per imprenditore, si intende ogni tipo di attività indipendente che genera ricavi», spiega. La questione, poi, è ancora più sfumata. Come scrive Roodman, il termine “microimprenditorialità” per riferirsi ai beneficiari del microcredito è stato coniato nel 1973 dal volontario di Acciòn International Bruce Tippet. Parola affascinante per il mondo imprenditoriale del credito occidentale, ma molto fuorviante. Il microimprenditore non è una versione in piccolo degli imprenditori europei e americani. Non gestisce e investe il denaro per procurarsi profitto, ma per mantenere la propria esistenza. Questo è un punto essenziale: più che di “microimprenditori”, suggerisce, si dovrebbe parlare di “microsopravvissuti”, (“microsurvivor”), termine che traduce meglio il modo che utilizzano per impiegare il denaro.
Il beneficiario di un credito spesso non fa quello che sostiene di fare per ottenere il prestito. Non genera attività produttive, ma spende il denaro in consumi (per attutire gli sbalzi), ripaga vecchi debiti, a sua volta si fa prestatore di denaro. In alcuni casi impiega il soldi per sistemare la casa, per riparare qualche attrezzo o – e questo contravviene alle regole di Yunus – per pagare la dote della figlia. Spesso prende in leasing porzioni di terreno per coltivarlo (altra cosa che non potrebbe fare), in modo da ottenere prodotti di sussistenza. In generale, sono le donne le destinatarie privilegiate del microcredito («più attente, meno attratte dal vizio del bere», spiega Lanzavecchia), ma i soldi vengono poi ripartiti nella famiglia senza nessun problema.
Il microcredito non fa uscire le persone dalla povertà (almeno, non in media), ma senza dubbio interviene nel loro stile di vita. Permette di disporre delle proprie risorse in modo diverso, cioè con maggiore libertà
Come si può vedere, nessuna di queste attività può definirsi imprenditoriale. Eppure, hanno tutte una loro logica. Spendere in consumi (si tratta perlopiù di consumi alimentari) permette di aumentare le speranze di sopravvivenza dei figli e garantire uno stato di salute migliore, che dà a sua volta la possibilità di impiegarli in altre attività. Anche riparare la casa rientra nella stessa logica. E la dote, in molti casi, può servire a migliorare la vita della figlia – che può accedere a una casa più ricca dove non dovrà soffrire la fame. Queste scelte fanno parte di uno stile di vita molto diverso da quello occidentale, e che si traducono meglio, appunto, con il termine “microsurvivor”. Non diventano imprenditori, ma sopravvivono. Il contesto, del resto, è essenziale. È difficile, scrive Hickel, che «gli aspiranti imprenditori trovino di fronte a sé una domanda sufficiente e remunerativa» per il semplice fatto che «i poveri non hanno molti soldi. E non servono studi per questo».
Il microcredito, però, un effetto lo ha. Non è di far uscire le persone dalla povertà (almeno, non in media), ma senza dubbio interviene nel loro stile di vita. Permette di disporre delle proprie risorse in modo diverso, cioè con maggiore libertà. Si fanno scelte diverse da quelle imposte dalla stretta necessità e, in ultima analisi, si vive meglio. È una conclusione che può deludere i fan del microcredito, ma senza dubbio fa anche chiarezza di una serie di critiche che, negli ultimi anni, ha cercato di demolire il mito (e la narrazione) messo in piedi da Yunus, salvandone diversi aspetti.
Al momento, conclude Roodman, il principale strumento utilizzato per uscire dalla povertà sono le rimesse, cioè il denaro inviato da familiari emigrati in altri Paesi. Per il resto, la povertà è un problema strutturale «e richiede soluzioni strutturali». Nel frattempo l’illusione del microcredito come salvezza, del meccanismo win–win, della ricchezza per tutti, è finita. Ma non è detto che sia un male.