Quasi un centinaio di piattaforme collaborative e circa 50 servizi di crowdfunding. C’è una via tutta italiana alla sharing economy, dalle social street ai coworking rurali, che va oltre i grandi big come Uber ed Airbnb. «Nell’economia digitale italiana c’è tanto copia e incolla dei modelli americani. Nella sharing c’è anche tanto altro», ha spiegato Ivana Pais, docente di Sociologia economica dell’Università Cattolica di Milano, organizzatrice di Share.it, evento dedicato alle pratiche italiane di economia collaborativa.
Anche secondo Juliet Schor, sociologa del Boston College e tra i maggiori studiosi della sharing economy a livello internazionale, «il settore italiano ha una sua specificità: al contrario di quanto accade negli Usa, si punta molto sull’aspetto solidaristico e di condivisione grazie all’alto capitale sociale». Se immaginiamo il mondo della sharing economy come una linea, «da una parte ci sono tante piccole iniziative di collaborazione e condivisione a livello locale, all’opposto troviamo le esperienze di sharing come Uber che puntano al profitto e che hanno alle spalle venture capitalist di altissimo livello».
Molte delle esperienze italiane si collocano nella prima parte della linea. E anche se ad oggi solo il 15% degli italiani usa servizi di sharing economy, la proliferazione di iniziative di condivisione ha attirato l’attenzione degli esperti di tutto il mondo. «Non è un caso che succeda in Italia», dice Christian Iaione, docente di governance dei beni comuni all’Università Luiss di Roma. «Stiamo costruendo la sharing economy su una tradizione della condivisione che si trova anche nella nostra costituzione, prodotto della cultura cattolica e comunista che mette al centro lo sviluppo della persona. Non c’è una via italiana, è proprio l’Italia che è così». Esempi di economia collaborativa in Italia si trovano da Milano a Palermo, fino a Battipaglia, comune della provincia di Salerno commissariato per mafia nel 2014, dove Iaione sta conducendo un programma di coprogettazione della rigenerazione della città.
“Stiamo costruendo la sharing economy su una tradizione della condivisione che si trova anche nella nostra costituzione, che mette al centro lo sviluppo della persona. Non c’è una via italiana, è proprio l’Italia che è così”
Milano da tempo è la capitale della sharing economy italiana (a breve sarà pubblicata anche guida sharing della città). È stata la prima città di approdo per Uber, il car sharing è ormai entrato a far parte delle abitudini dei milanesi, gli spazi di coworking censiti dal Comune sono quasi una cinquantina, ci sono case che vengono messe a disposizione per fare mostre e concerti, le social street sono quasi 60 e gli swap party per scambiarsi i vestiti sono all’ordine del giorno. Ma «l’Italia non è Milano, l’obiettivo deve essere quello di portare l’innovazione anche nei campanili e nelle periferie», dice Marta Mainieri, fondatrice di Collaboriamo!, che ha mappato le esperienze sharing italiane. «La sfida è riuscire a raggiungere anche i cittadini che non sanno cos’è la sharing economy o che la associano solo ad Airbnb e Uber».
E le esperienze nelle province italiane non mancano. Il coworking, ad esempio, è una delle pratiche che si sta diffondendo anche nelle aree non urbane di tutta Italia. Nel Comune di Veglio, meno di 600 abitanti nella provincia biellese, il sindaco ha ben pensato di creare uno spazio di coworking per ridurre i casi abbandono dal paese da parte dei più giovani. A Matera, dove a gennaio 2015 si è tenuta la prima sharing school, è nato invece Casa Netural, che Mariella Stella, una delle fondatrici, definisce “coworking rurale”. «A Matera il bisogno del coworking perché l’ufficio costa molto non c’era», dice Stella. «L’idea quindi non punta sul risparmio economico ma sul valore aggiunto di lavorare insieme che non è solo condivisione dello spazio». All’inizio non è stato semplice. Oggi, dopo due anni di vita, Casa Netural ha 20 dipendenti e 90 soci. E la sede, prima nel centro della città dei sassi, da poco è stata spostata nella periferia. «Per incontrare i cittadini comuni».
“Da una parte ci sono tante piccole iniziative di collaborazione e condivisione a livello locale, all’opposto troviamo le esperienze di sharing come Uber che puntano al profitto e che hanno alle spalle venture capitalist di altissimo livello”
In Sardegna, invece, è nato Sardex, un circuito di credito commerciale basato su una moneta complementare per favorire le relazioni economiche tra gli operatori del territorio. «L’idea», spiega il fondatore Carlo Mancosu, «è quella di creare relazioni economiche umane diverse da quelle di mercato basate sul prezzo». Ogni impresa ha una linea di credito in cui un Sardex corrisponde a un euro. E i pagamenti avvengono solo in Sardex. Nel circuito entrano anche i dipendenti delle aziende, che possono chiedere anticipazioni delle retribuzioni future per matrimoni o acquisto di mobili, da restituire tramite decurtazioni dello stipendio senza interessi. «Nasce così anche un nuovo rapporto tra datore di lavoro e dipendenti», dice Mancosu. Dalla Sardegna il modello è stato replicato poi in altre regioni, dalla Sicilia al Lazio, dall’Abruzzo al Molise. Le imprese che hanno aderito sono oltre 2.700. Nel 2014 le transazioni sono state di 30 milioni. Le prospettive per il 2015 sono di raddoppiare i numeri.
Anche il crowdfunding in Italia è diventato territoriale. Il caso presentato nel corso di Share.it è stato quello di Ginger (acronimo di Gestione idee nuove e geniale in Emilia Romagna), piattaforma nata a Bologna per finanziare progetti locali. Un esempio su tutti è stata la raccolta fondi per il restauro del portico di San Luca a Bologna, in collaborazione con il Comune, che ha superato i 300mila euro e i 7mila sostenitori. «Il fare le cose insieme è diventato un modus operandi bolognese», spiega la fondatrice Agnese Agrizzi, «lo era già prima, ma grazie al crowdfunding è cresciuto». Il sogno, dice, «è di fare cose di questo tipo anche con altre amministrazioni e, perché no, coinvolgere donatori internazionali interessati al bello italiano». Ma ci sono anche casi molto più piccoli, come il finanziamento del primo disco di un gruppo musicale e il lavoro di un giornale quotidiano a Ferrara. O anche il matrimonio di Francesca e Giacomo. E per chi li sostiene, a seconda della donazione, c’è in regalo la bomboniera o anche un’opera esclusiva della sposa, che di mestiere fa la creativa.