TaccolaDaverio: «I nomi stranieri per dirigere i musei? Una delusione assoluta»

Daverio: «I nomi stranieri per dirigere i musei? Una delusione assoluta»

Bella l’idea, deludenti i risultati. Non potrebbe essere più netto il giudizio del critico d’arte e giornalista Philippe Daverio sulla riforma dei musei. Impostata dall’ex ministro Massimo Bray e portata avanti dall’attuale ministro Dario Franceschini, la riforma è alla fase conclusiva della selezione dei direttori dei principali 20 musei italiani, nel frattempo dotati di autonomia contabile e amministrativa. Ma le figure scelte dopo una prima scrematura – dieci persone per ogni museo, che dovranno sostenere colloqui individuali davanti a una commissione -, dice Daverio, «sono estremamente modeste dal punto di vista scientifico». E se le cose sono andate male fin qui, con pochi visitatori, servizi vetusti rispetto agli standard europei e orari penalizzanti, dice il critico di Passepartout, non è per colpa dei sovrintendenti, ma del ministero. Che ha poco da illudersi: ci saranno veti incrociati che bloccheranno tutto, anche in caso di forzature da parte del governo.  

Ci si lamenta da tempo che i musei italiani non funzionino. Ora c’è stato un cambio di approccio, con una selezione internazionale. Che idea si è fatto?

Rimane un piccolo dubbio, intanto: le offerte di remunerazione sono molto più basse di quelle della media dei musei importanti e molto più alte dello stipendio dei sovrintendenti. Quindi non si capisce bene a chi siano rivolte. Ci sono poi dei problemi che si porranno inevitabilmente, il primo dei quali è una naturale conflittualità fra chi viene dall’esterno e chi dall’interno. Devo dire la verità: fin dall’inizio il mio giudizio sull’operazione non è positivo, perché credo che la formazione per ruoli così importanti sia un’operazione complessa, che può avvenire soltanto attraverso due strade. La francese, come quella dell’École du Louvre, dove si prepara a questa funzione. Oppure una seconda, che è il percorso di carriera all’interno del ministero. Io per l’Italia sarei ministeriale, non sarei privatista, perché non ho mai visto succedere una cosa privatistica con buoni risultati, fino ad oggi. Non è una presa di principio, è banalmente una constatazione. Credo che nessun ministro recente ne possa essere colpevole, in quanto non si sono più fatti concorsi veri di carriera nel ministero da troppo tempo. E la risorsa umana nel ministero dei Beni culturali è diventata fragilissima. 

Serviva una riforma?

Era assolutamente necessaria, perché così com’era la macchina non funzionava più. 

Il problema era il ruolo di freno dei sovrintendenti?

«Dai nomi che ho visto apparire, la delusione è assoluta. Metà di questi nomi non ha neanche la conoscenza di chi dirige il museo di Edimburgo, o di chi sta seduto al Louvre. Sono totalmente improvvisati»

No. Il problema è il ministero stesso. Non possiamo incolpare i soprintendenti. Io sono sufficientemente vecchio, ormai, per ricordarmene tantissimi. Ho vissuto la loro evoluzione negli ultimi 40 anni e debbo dire che l’abbassamento del livello, con i pensionamenti recenti, è stato una grande perdita per il Paese. Nelle sovrintendenze lavoravano ancora fino a 20 anni fa delle personalità eminenti, penso a Nicola Spinosa a Napoli, a Carlo Bertelli a Milano, ad Andrea Emiliani a Bologna: persone di grande autorevolezza e di grande notorietà scientifica, cioè persone che avevano alle loro spalle un curriculum di grandissima dignità, pari a quello delle grandi università mondiali. Questo fenomeno aveva il vantaggio di generare dei rapporti internazionali che solo l’autorevolezza può generare. Non voglio parlare di nessuno, ho visto i nomi e non voglio che domattina qualcuno mi faccia causa, ma dai nomi che ho visto apparire, la delusione è assoluta. Metà di questi nomi non ha neanche la conoscenza di chi dirige il museo di Edimburgo, o di chi sta seduto al Louvre. Sono totalmente improvvisati. L’analisi del personale selezionato era una buona idea, ma per il momento io non do il voto di sufficienza al ministero

Quindi bella l’idea, ma i nomi non sono sufficienti?

«Ho visto certi nomi che se prendessero il telefono e chiamassero il Louvre, al Louvre si metterebbero a sorridere»

Già l’Italia è un Paese fragile in questo settore. Strutturalmente e finanziariamente, dove l’efficacia era in qualche modo legata alla grande autorevolezza di alcune figure pubbliche. Io ho visto certi nomi che se prendessero il telefono e chiamassero il Louvre, da Parigi si metterebbero a sorridere. 

Lei fa degli esempi che riguardano il contenuto, la capacità di portare opere. Sul lato del contenitore, cioè della gestione, la riforma sancisce la separazione tra sovrintendenze e gestione dei musei. Il nuovo processo di selezione non va nella direzione giusta?

In qualche modo ha una sua logica. Ho paura che porti a dei veti incrociati, che temo siano il primo passo per l’antilosi definitiva. Ma vedremo. 

Forti resistenze sono scontate?

I veti incrociati sono una delle naturali inclinazioni del sistema amministrativo italiano. Glielo dico sulla base dell’esperienza di uno che ha fatto l’amministratore pubblico per vari anni e che oggi ricopre degli incarichi nel sistema universitario. L’Italia è basata sul veto incrociato. Se non si riesce a trovare una soluzione in cui queste inclinazioni perniciose vengono riequilibrate da stime reciproche, è difficile venirne fuori. 

Lei pensa che un direttore straniero a Napoli rischi di fare come il personaggio di “Così Parlò Bellavista”, che viene catapultato in un mondo che non comprende? 

«Lo straniero a Napoli non riuscirà a capire neanche come funziona il sistema amministrativo italiano» 

Lo straniero a Napoli non riuscirà a capire neanche come funziona il sistema amministrativo italiano. 

Più che vedere una ventata di novità portata dall’esperienza internazionale, lei vede una svolta inefficace. 

Guardi, io do il beneficio di inventario. Però, se devo essere leggermente attento alla questione, le lampadine accese sono tantissime. 

MESSAGGIO PROMOZIONALE

La riforma arriva dopo lo spostamento di molti sovrintendenti da una città all’altra che è stato visto come il tentativo di indebolire le resistenze di queste figure. 

La riforma risponde alla volontà da parte del ministero di rimettere i sovrintendenti un po’ in riga. E se questo sia corretto o sbagliato non sono in grado di dirlo. 

Quello del governo è stato un approccio troppo brutale?

«In Italia gli approcci forti nelle strutture ministeriali negli ultimi 40 anni non hanno mai dato un risultato positivo» 

In Italia gli approcci forti nelle strutture ministeriali negli ultimi 40 anni non hanno mai dato un risultato positivo. 

In questo caso non si parla più di Mario Resca che, pur avendo una storia di successo da McDonald’s, non aveva esperienze nei musei. Si parla di professori universitari e gestori di musei. 

La mia risposta è no, non è così, lo dico dal mio diritto di trombone universitario. 

E come giudicherebbe queste figure?

Molte di queste figure sono estremamente modeste dal punto di vista scientifico. Hanno scarse pubblicazioni alle spalle, hanno una operatività estremamente ridotta. Non è che uno di questi sia a capo di una grande mostra fatta al Louvre. 

È un’occasione persa?

No, è un progetto molto alambiccato, che viene fatta nello spirito del ministero senza tenere conto di una analisi attenta della realtà oggettiva. 

In generale condivide la separazione tra gestione e ruolo scientifico?

In linea di principio sì. Ma il doppio tavolo è alla base della contrattualistica in Italia. io mi opposi alla nascita dei doppi tavoli, nella riforma dei teatri d’opera in Italia, nel 1994, quando lanciai la proposta, che poi fu accolta, di fondare le fondazioni dei teatri d’opera. Nel ministero io rappresentavo la città di Milano e avevo detto che due tavoli opposti sono la radice di un sistema che non funziona, perché l’incrocio genera veto ostativo e il veto ostativo apre gli spazi ai favori. Sono percorsi che vanno all’opposto della trasparenza amministrativa e della responsabilità amministrativa. I tavoli incrociati sono stati inventati da un grande uomo storico, che si chiamava Ponzio Pilato.

A volte si fa un riferimento a Paolo Grassi e Giorgio Streheler. 

No, quello era un rapporto di amicizia, non di tavoli incrociati. I tavoli incrociati sono quelli tra Caifa e Pilato. Ha visto che risultato? Dopo duemila anni è positivo, ma sul momento qualcuno finì sul Golgota. 

Facendo un confronto internazionale, spesso si cita il modello francese. La convince come paragone?

«La riforma non ha niente a vedere con il modello francese»

Non ha niente a che vedere con il modello francese. Perché si fonda su una scuola di formazione dello Stato durissima, che è l’École du Louvre, dove uno si iscrive e dopo due anni si specializza in una delle varie aree e finisce nell’amministrazione pubblica dopo la specializzazione. In Francia tutto si basa sulla formazione. Qui invece tutto si basa su una sorta di buona nomea definita dagli ambienti interni al ministero. Ma è difficile da affrontare come responsabilità. 

E la formazione all’interno delle università italiane?

L’università italiana è di una fragilità assoluta. E di una distanza abnorme dalla realtà. 

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