Viva la FifaGhiggia, ascesa e declino del calciatore che fece piangere il Brasile

Ghiggia, ascesa e declino del calciatore che fece piangere il Brasile

«Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanã. Frank Sinatra, Papa Giovanni Paolo II e io». Alcides Ghiggia è morto a 88 anni, la sera del 16 luglio, mentre il mondo del calcio come ogni anno ricordava ai brasiliani il disastro sportivo del Maracanà, nel quale lui aveva fatto un assist e un gol. Non sappiamo se Ghiggia stia incontrando, sul suo cammino ultraterreno verso chissà dove, il fantasma del Maracanazo. Di certo, sappiamo che qui sulla Terra in molti lo avevano perdonato. Nel piazzale fuori dal Maracanà c’è un pavimento con le orme dei grandi giocatori che hanno calcato l’erba dell’Estadio Mario Filho, come in realtà si chiama l’impianto. Una Walk Of Fame che dal 2006 ospita anche il calco dei suoi piedi.

«Sul momento non mi resi conto dell’enormità della situazione: 200mila brasiliani erano venuti al Maracanà convinti di festeggiare il trionfo della Seleçao, e il piccolo Uruguay grazie al mio gol stava sfilando loro la coppa da sotto il naso. Fu a fine gara, nel vedere la gente impietrita se non già disperata, che cominciai a realizzare: nessuno è mai stato “in trasferta” come noi quel giorno. Adesso, le confesso che ogni tanto ascolto la registrazione radiofonica della mia rete, la conservo a casa: e ogni volta mi commuovo», racconterà nel 2009 a Paolo Condò. Quella partita lo ha reso famoso ovunque: lui, un uomo piccolo e magro in grado di gettare nello sconforto un Paese grazie ad una frase, prima che ad un gol. Cominciò tutto nella pancia dello stadio: «Non guardare mai le tribune, la partita si gioca qui sotto», intima ai compagni mentre i giornalisti brasiliani, prima ancora del fischio d’inizio della finale del Mondiale 1950, hanno già eletto il portiere della Seleçao Moacir Barbosa come miglior giocatore del torneo. Jules Rimet, inventore del Mondiale, ha nella tasca della giacca un foglietto: è il discorso di congratulazioni ai vincitori brasiliani. I dirigenti uruguaiani pensano invece alla resa, ma con onore.

Nello spogliatoio del stadio, accanto Ghiggia, c’è capitan Obdulio Varela. El Negro Jefe, “il capo nero” lo chiamano. Un’occhiata delle sue e ti convinci anche che gli asini volano. O che puoi battere il Brasile in casa sua. Di quella gara conosciamo tanto, tutto, come il 4-3 messicano di vent’anni dopo. Non è un partido del siglo il Maracanazo, ma solo perché è diventata subito una tragedia. Varela lo sa già, che avrebbe vinto l’Uruguay. Lo sa anche quando, dopo il primo vantaggio brasiliano, cerca di far arrabbiare l’arbitro dicendogli che è fuorigioco (ma non lo è). Lo sa anche Ghiggia, quando sulla fascia semina mezzo Brasile e la mette dentro per Schiaffino per l’1-1. Lo sa quando riceve palla da Julio Perez e, anziché servire uno dei tre compagni in area, aspetta che Barbosa accenni l’uscita per infilarlo nel piccolo buco di porta sguarnita che ha lasciato. L’Uruguay è campione del mondo. I brasiliani piangono, Barbosa diventa il peggior giocatore del torneo, Rimet lascia il discorso in tasca e i dirigenti della Celeste si rimangiano le scuse da presentare alla nazione.

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Quella partita è stata uno spartiacque per tanti. Per Barbosa è stata l’umiliazione di una vita. Nel 1993 decide di fare visita alla Seleçao, impegnata nelle qualificazioni Mondiali per Usa ‘94. Ma la Federazione non lo lascia entrare. Dopo più di quarant’anni, sono convinti ancora che porti sfortuna. Obdulio Varela aveva passato tutta la notte successiva alla finale nei bar di Rio, piangendo assieme ai giocatori, devastato dai sensi di colpa. Il bere lo porta negli anni a diventare un parcheggiatore abusivo con il vizio della bottiglia. Per Ghiggia, il Maracanazo è stato l’inizio di un lungo viaggio.

Piccolo, ma veloce e tosto, tostissimo. Un carattere forgiato in famiglia. Alcides aveva cominciato giocando a basket, per il Nacional, ma i genitori, accaniti tifosi del Penarol, lo avevano indirizzato al futbol nella loro squadra. Si rivela abile con i piedi, tanto che il Nacional lo rivuole. La madre Gregoria, con le sue mani spesse per i calli da cucito, lo avverte: vai a giocare là e a casa non ci torni. Ghiggia all’inizio degli anni Cinquanta era già una colonna del Penarol, una delle gloriose squadre di Montevideo. Nel 1949, dopo un anno passato all’ombra dei senatori, il giovane Alcides aveva segnato 8 reti, contribuendo alla vittoria del campionato. Il successo lo bissa nel 1951, poi la sua carriera con la maglia aurinegra si interrompe nel 1953, quando viene squalificato otto mesi per aver aggredito un arbitro, colpevole di avergli annullato un gol. Ma Ghiggia è piccolo e tosto. Così per riprendersi un posto nel calcio vola oltreoceano. A Roma c’è Renato Scaderdoti, lo chiamano “Il Banchiere di Testaccio”. Grazie alla sua intercessione, nel 1927 è la nata la As Roma, dopo la fusione di tre società. Ne diventa il massino dirigente l’anno dopo, facendo anche costruire il famoso campo di Testaccio. Sacerdoti era tosto quanto bastava. Negli anni Trenta, poco prima della promulgazione delle leggi razziali, venne spedito al confino per traffico di valuta straniera: un’accusa che nascondeva la vera motivazione, legata alle sue origini ebraiche. Sfugge al lager travestendosi da prete e nascondendosi in un convento, quindi cosa vuoi che sia acquistare un eroe del Mondiale. Lo fa, annunciandolo all’assemblea dei soci della Roma riunita al Teatro Sistina.

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Il destino di Ghiggia è quello di legarsi ai grandi disastri sportivi. Negli anni della Roma (con la quale non vinse mai lo scudetto) decide di prendere lo status di oriundo per vestire la maglia azzurra. Al Mondiale del 1950 l’Italia sarebbe dovuta andare con l’ossatura del Grande Torino, scomparso l’anno prima a Superga. Per il movimento italiano era stata una tragedia enorme, perché oltre a piangere i morti, bisognava ricostruire una Nazionale. Ma era stato difficile. Nel 1954, al Mondiale in Svizzera, l’Italia giocò un torneo anonimo. Per l’edizione del 1958 le strada era ancora più in salita. Tanto che si era deciso di affidarsi agli oriundi: l’argentino Montuori e i due eroi del Maracanà, Schiaffino e Ghiggia, vennero chiamati in azzurro. Su Ghiggia i sospetti di una naturalizzazione combinata sono molti, tanto che si parla di “misteriose origini liguri”. Non servirà comunque a molto. L’Italia doveva giocarsi l’accesso al Mondiale contro l’Irlanda del Nord, contro la quale bastava il pareggio. Di quella gara ne vennero giocate due versioni, La prima venne ridotta al rango di amichevole, dato che l’arbitro restò bloccato a Londra per la nebbia.

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Il ct Foni, a Belfast, schiera una squadra offensiva, altro che pareggio: Schiaffino e Ghiggia subito dentro, assieme a Montuori e al brasiliano Da Costa. Il clima è infuocato: Eddy Firmani, che era andato in tournée con la Sampdoria in Inghilterra, in un’intervista aveva dichiarato che in Italia i giocatori erano tutti drogati. Dirà di essere stato frainteso, ma il danno è fatto. La pressione sull’Italia è enorme, gli avversari menano come fabbri e l’arbitro vede solo quello che vuole. L’Italia perde 2-1 e non si qualifica ai Mondiali. Ghiggia viene espulso. Nasce il mito della “Battaglia di Belfast” e stavolta Alcides non è un eroe. Nel 1959, altri guai per lui: viene sorpreso in auto con una ragazzina di 14 anni, che qualche mese dopo partorirà un bambino che Ghiggia subito riconosce. Sconta due mesi per atto osceni e perde la fascia di capitano della Roma. Non è la fine: Schiaffino lo raggiunge in giallorosso, dove i due vincono la Coppa delle Fiere. Poi passa al Milan, dove finalmente vince lo scudetto.

Torna in patria, gioca ancora a pallone, poi smette a 42 anni. Negli anni, via via, ci si comincia a ricordare di lui solo il 16 luglio. Per vivere fa diversi lavori. Come il croupier, da impiegato pubblico in un casinò, o come direttore di un supermercato.  Tornato al calcio come allenatore del Penarol. La vita cerca però spesso un riscatto dai propri eroi sportivi. Negli ultimi anni faceva interviste a pagamento, per mantenersi e per alimentare il mito di quella gara, di cui spesso riascoltava la registrazione. Qualche anno fa si è venduto il Golden Foot per 29mila euro. Ma sembrava indistruttibile, anche quando solo tre anni fa era scampato a un incidente in auto contro un camion ed era stato in coma per 37 giorni. Non era ancora il suo momento. Il fantasma del Maracanazo è venuto a prenderselo mentre parlava di calcio con il figlio. A un certo punto si è interrotto e il cuore ha ceduto. Era rimasto solo lui in vita, di quella nazionale. Ora Ghiggia e quel fantasma chissà, forse camminano assieme su quel prato, ricordando quella gara ancora una volta, un’ultima volta. 

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