Il made in Italy? Non è un prodotto, ma un’idea del mondo

Il made in Italy? Non è un prodotto, ma un’idea del mondo

A fine maggio, l’associazione degli ex allievi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha invitato alcuni imprenditori del settore agroalimentare per capire dai diretti interessati le potenzialità di un settore oggi in grande crescita. Dopo un primo giro di interventi, ciò che ha colpito i presenti è stata l’assenza di numeri: nessuno degli imprenditori sul palco aveva parlato di fatturato o utile netto. I protagonisti del panel, sorprendendo la platea, si erano limitati a un racconto intenso e dettagliato dei tanti progetti di matrice culturale e territoriale su cui sono nate e si sono sviluppate le aziende di cui erano responsabili.

Se non si è parlato di numeri, almeno in prima battuta, non è perché le aziende fossero troppo piccole, troppo giovani o in crisi. Al contrario: realtà come Rigoni di Asiago o Naturasì hanno conosciuto trend di crescita sorprendenti, spesso con una importante proiezione internazionale. Il punto è un altro.  Gli imprenditori sul palco volevano prima di tutto spiegare la cornice culturale del loro progetto di impresa per esplicitare le ragioni profonde che alimentano la loro determinazione nel continuare a crescere e a innovare. 

La produzione e la vendita di manufatti di qualità rappresentano lo strumento con cui testimoniare quotidianamente la veridicità e la consistenza di una propria idea del mondo 

Chi conosce i tanti protagonisti del made in Italy non si stupisce più di tanto. Molti imprenditori hanno avviato la propria attività perché avevano in mente un progetto culturale (oltre che economico) da sviluppare. La produzione e la vendita di manufatti di qualità costituiscono il mezzo con cui dare forma a questi progetti. Rappresentano lo strumento con cui testimoniare quotidianamente la veridicità e la consistenza di una propria idea del mondo. 

Guardando i dati proposti durante il seminario annuale di Symbola del 27 e 28 giugno scorsi c’è da pensare che il plotone delle aziende che hanno fatto della cultura una leva imprenditoriale sia sempre più consistente. Nell’ambito del comparto più generale della produzione culturale – più o meno il 5% del PIL nazionale -, le “industrie culturali”, quel  pezzo di made in Italy che produce principalmente oggetti per la persona (dagli accessori alla gioielleria, dal design per la casa al food, ovviamente), costituisce un pezzo sempre più dinamico della nostra economia. 

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

In alcuni casi questo percorso culturale è implicito e manca di una particolare articolazione narrativa. In molti altri la manifattura di oggetti tipici del made in Italy riflette oggi un progetto culturale più consapevole e dettagliato che la domanda oggi riconosce e apprezza. Molte imprese, insomma, hanno imparato a raccontarsi e spiegare le proprie ambizioni. Le forme di partenariato che molte imprese hanno avviato con istituzioni culturali e di ricerca testimoniano una visione sempre più esplicita e consapevole del proprio ruolo. L’obiettivo di queste partnership, nella maggior parte dei casi, non è più quello di diventare generici sponsor ma quello di costruire percorsi comuni per sviluppare e affinare progetti culturali coerenti e credibili. 

Il racconto e la proposta culturale di un’impresa precedono la proposta commerciale in senso stretto

Rendere esplicite le premesse culturali del prodotto Made in Italy rappresenta una sfida per molte piccole e medie imprese italiane. Secondo Marco Bettiol, autore di “Raccontare il made in Italy”, un volume pubblicato di recente proprio su questi temi, il racconto del prodotto italiano non deve limitarsi ad amplificare – ex post – il messaggio pubblicitario tradizionale, completando con un video su Youtube lo sforzo di comunicazione avviato con la cartellonistica stradale o lo spot televisivo. È vero, piuttosto, il contrario. Il racconto e la proposta culturale di un’impresa precedono la proposta commerciale in senso stretto, facendo del prodotto e della vendita lo strumento in grado di garantire sostenibilità economica a un percorso culturale e sociale che costituisce il vero Dna della manifattura culturale

Durante il seminario di Symbola, il presidente della Fondazione Ermete Realacci ha sottolineato come il perimetro di queste “industrie culturali” sia ancora restrittivo rispetto a formulazioni analoghe promosse da altri ricercatori. I parametri fissati da Symbola per identificare il valore generato dal comparto colgono, in effetti, solo una quota parte dei prodotti del made in Italy. In generale, l’ampliamento e l’aumento di importanza di questo perimetro sono legati alle trasformazioni dei rapporti fra domanda e offerta nei mercati maturi. Nelle economie avanzate non c’è particolare bisogno di un nuovo tavolo, di un nuovo abito o di un nuovo gioiello. Prodotti sofisticati, destinati a una domanda internazionale sempre più attenta e educata, hanno un valore se costituiscono un medium per entrare in relazione con culture e sensibilità diverse. In questo senso l’operazione di misurazione avviata da Symbola grazie al suo rapporto “Io sono cultura” costituisce un primo elemento per ragionare su un nuovo modo di fare impresa e su forme nuove di proiezione internazionale del nostro paese.

Sandro Boscaini ha raccontato il suo vino agli analisti di Londra e Francoforte proponendo un territorio, un modo di lavorare e uno stile di vita. La risposta degli analisti è illuminante: «Perché una storia così bella non ce l’avete raccontata prima?»

Rimane da capire se e come imprese profondamente ancorate a progetti culturali spesso legati a tradizione e territorio possono diventare il traino della crescita, magari sbarcando in borsa e attingendo risorse sui mercati finanziari. Da questo punto di vista il successo della recentissima quotazione di Masi, azienda leader nella produzione di Amarone in Valpolicella, (una trentina di milioni di Euro all’Aim per il 20% del capitale) costituisce un precedente interessante.  Sandro Boscaini ha raccontato il suo vino agli analisti di Londra e Francoforte proponendo un territorio, un modo di lavorare e uno stile di vita. La risposta degli analisti è illuminante: «Perché una storia così bella non ce l’avete raccontata prima?»

*Direttore Scientifico Fondazione Nord Est e autore di “Futuro Artigiano” (Marsilio)