«Era il 2004, non c’era ancora Facebook, né Twitter, in Francia vivevamo o la prima fase dei social network, ovvero la stagione dei blog, che in quegli anni emergevano alla grande come strumento di comunicazione. È in quel momento che ho iniziato». Chi parla si chiama Gilles Roussel, ma è molto più conosciuto come Boulet, che in francese significa “polpetta”. Ha 40 anni, i capelli rossi e l’espressione pacifica e divertita di chi nella vita sta facendo quel che gli piace: disegnare. Lo abbiamo incontrato nella sede di Bao Publishing, la casa editrice che ha appena pubblicato in Italia Appunti di vita, il primo volume dei suoi lavori usciti sul blog.
In Italia il grande pubblico quasi non lo conosce, ma Boulet, nel mondo del fumetto francese — bedé, dicono loro — è un punto di riferimento. È difficile calcolare quanti disegnatori abbia ispirato il suo lavoro, e non solo in Francia. Di sicuro uno tra loro è Zerocalcare, che non ha mai nascosto la sua passione per il francese. E difatti Boulet è stato una vera e propria fonte di ispirazione per il fumettista romano — se ne trovano le prove nel tratto, in una certa regia, ma soprattutto nei temi e in un certo umorismo — anche lui emerso come fenomeno web e diventato, nel giro di tre anni, uno dei più grandi fenomeni di massa del fumetto italiano contemporaneo, come dimostrano le migliaia di copie vendute dai suoi fumetti e le file chilometriche che si assiepano a ogni sua presentazione.
Boulet in qualche modo ha aperto una strada, e lo ha fatto per tutta una generazione, quella nata a cavallo degli anni Ottanta, più o meno tra il 1975 e l’85, e che ha vissuto sulla propria pelle l’ultima grande rivoluzione tecnologica. «Effettivamente la nostra è una generazione unica, ibrida il digitale e l’analogico», dice Boulet, «perchè abbiamo vissuto un passaggio epocale, passando dall’essere analogici e “disconess”, all’essere digitali e iperconnessi e ora ci troviamo a vivere in un mondo in cui le informazioni viaggiano in quantità e velocità mai raggiunte prima».
A livello politico è vero che siamo una generazione poco attiva, quasi apoliticizzata?
No, non credo che la nostra generazione sia così tanto meno politicizzata di quelle che l’hanno preceduta. Sembra che lo sia, probabilmente, ma solo perché siamo la generazione che ha vissuto la propria giovinezza nel periodo più pacifico della storia umana — che tutto sommato è anche una bella cosa. Ma questo non significa per forza che la nostra generazione sia affetta da una mancanza sistematica di impegno politico, e negli ultimi anni lo stiamo vedendo.
Per esempio?
A me sembra che su internet negli ultimi tempi sia notevolmente aumentato l’impegno politico, quanto meno di una parte della nostra generazione — d’altronde i qualunquisti ci sono sempre stati — che, proprio grazie a internet, ai blog, ai social network come twitter, tumblr o facebook, ha dimostrato di aver trovato degli strumenti per rivendicare diritti, fare controinformazione e addirittura per portare avanti lotte e proteste, come quella di Gezi Park in Turchia, o, qualche anno fa, la primavera egiziana.
«Quelli che una volta si sentivano isolati e soli, ora si sentono più vicini, hanno cominciato a capire che si può agire anche grazie a internet, ma a patto che il virtuale sia una tappa che porti poi all’impegno reale, quello in strada, tra la gente»
Non c’è il rischio dell’isolamento e della chiusura?
No, su questo tema sono ottimista, perché quelli che una volta si sentivano isolati e soli, ora si sentono più vicini, hanno cominciato a capire che si può agire anche grazie a internet, ma a patto che il virtuale sia una tappa che porti poi all’impegno reale, quello in strada, tra la gente. L’ultimo esempio a cui ho assistito è stata la mobilitazione enorme per la manifestazione in seguito agli attentati di Parigi di gennaio. Nata su internet, ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone a Parigi sfruttando i social network e la velocità di diffusione che garantiscono. Nello stesso modo — su facebook, twitter e tumblr — in tanti disegnatori hanno reagito pubblicando disegni di solidarietà a Charlie. Insomma, sono ottimista, vedo che qualcosa si sta muovendo.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Eppure, se lasciamo da parte l’attivismo, la presenza di questa generazione in politica è ancora marginale.
Sì, dal punto di vista della vita politica diciamo “istituzionale” la nostra generazione è ancora abbastanza lontana, o meglio, sta cominciando ora ad arrivarci — pensa a Tsipras o Renzi — ma questo è un problema diverso, che c’entra con il fatto che la vecchia classe politica non cede spazio alle nuove generazioni. Alcune delle conseguenze, tra l’altro, sono che, in molti ambiti come il digitale e la sua regolamentazione, per l’appunto, in questa vecchia politica manca completamente la sensibilità per capire e valutare i problemi. Ma che ci possiamo fare, al limite possiamo augurarci che muoiano in fretta (ride)…
Torniamo alla tua attività di fumettista. Perché hai deciso di usare te stesso come protagonista delle tue storie?
Prima di tutto credo che si debba cambiare punto di vista, perché la scelta della prima persona per quanto mi riguarda non è stata una scelta artistica, diciamo che è capitata.
«Le mie sono riflessioni sulla contemporaneità, sul quotidiano, partono da situazioni reali, il personaggio che è in scena sono io, ma nello stesso tempo non sono io»
Come hai iniziato a pubblicare su internet?
Era il 2004 e aprivano tutti un blog: giornalisti, fotografi, musicisti, ma ancora nel fumetto non c’era quasi nessuno, eravamo pochissimi e formavamo un circolo quasi chiuso, era come parlare tra amici. Per questo ho sviluppato un racconto con me come protagonista. Poi con il tempo è un po’ cambiato, visto che a un certo punto — dopo un paio d’anni — mi sono accorto che, dai 500 lettori iniziali, il mio blog era arrivato a raggiungere 30mila persone al giorno. A quel punto, era il secondo anno, mi sono messo a disegnare racconti di viaggio — in quel periodo ho viaggiato un sacco — dopodiché, dal terzo anno, ho iniziato ad avvicinarmi a un tipo di comicità da stand up comedy americana. È chiaro che quando gente come Louis C. K. sale sul palco e ti racconta una cosa che gli è successa, non è detto che gli sia veramente successa. È banale dirlo, anche se in realtà in molti credono che dietro quello che scrivo ci sia solo verità — che sia single, per esempio — ma in realtà gran parte è finzione, perché il fatto di usare me stesso come protagonista non vuol dire che quel che racconto sia autobiografico, ormai in quel che disegno non c’è più nulla di autobiografico e, in fondo, credo sia proprio per questo che funziona. Le mie sono riflessioni sulla contemporaneità, sul quotidiano, partono da situazioni reali, il personaggio che è in scena sono io, ma nello stesso tempo non sono io. Pensa che una volta un lettore mi ha chiesto se non stavo male ad essere single da così tanto tempo, come mai non avessi famiglia. Gli ho risposto semplicemente che quella è la parte che non riguarda i lettori, è la mia vita privata.
Cosa ha significato per te il web?
A livello artistico per me l’arrivo del web è stato una manna, è stato veramente fantastico. Prima facevo un mestiere ultranoioso, lavoravo da casa, non vedevo nessuno, disegnavo tutto il tempo e non avevo feedback, perché quando finivo qualcosa dovevo attendere mesi per sapere l’effetto che faceva al pubblico, e lo sapevo solo ai festival, che erano i pochi momenti in cui potevo veramente avere un contatto con il pubblico. Era noiosissimo. O meglio, era sempre il lavoro più bello del mondo, ma non c’era quasi mai contatto con il pubblico dei lettori.
«A livello artistico per me l’arrivo del web è stata una manna, è stato veramente fantastico. Prima facevo un mestiere ultranoioso, lavoravo da casa, non vedevo nessuno, disegnavo tutto il tempo e non avevo feedback»
E poi?
Con l’arrivo di internet, dei blog e con la possibilità di fare webcomic ho finalmente avuto un rapporto diretto con il pubblico, potendo incontrare più facilmente — anche se spesso solo virtualmente — i miei lettori. Avevo un pubblico fedele, che tornava a vedere i miei lavori, che mi scriveva un sacco di mail. Era come se prima fossi un monaco amanuense che copiava libri nella solitudine di un monastero e poi, di colpo, come se fossi diventato una rockstar. Il passaggio l’ho adorato, lo confesso. Anche perché ho scoperto l’esistenza di un pubblico molto preparato, pieno di buona volontà, senza contare i fatto che era anche ricco di altri fumettisti.
Dal web le tue storie sono arrivate poi su carta, che rapporto c’è tra i due supporti?
All’inizio mi dicevano che era un suicidio editoriale pubblicare tutto su internet gratuitamente, perché poi nessuno avrebbe comprato i miei libri. Ma io me ne fregavo e rispondevo che volevo esattamente quello: che i miei lavori girassero gratis sul web. Ero sicuro che, proprio grazie a quella diffusione online, i miei libri avrebbero visto allargarsi il proprio orizzonte di pubblico, paradossalmente — e contrariamente a quello che mi dicevano gli amici — vendendo di più di prima. E così è stato. una gran parte del pubblico che seguiva il mio blog, infatti, ha comprato il libro. E lo ha fatto perché voleva l’oggetto fisico.
La carta è ben lontana dall’essere morta. Il libro è un oggetto, e proprio per questo manterrà un’attrattiva, è insostituibile e, soprattutto, è qualcosa che il lettore possiede, non è un mucchio di pixel
Quindi la carta ha ancora un futuro?
Certamente, la carta è ben lontana dall’essere morta. Il libro è un oggetto, e proprio per questo manterrà un’attrattiva, è insostituibile e, soprattutto, è qualcosa che il lettore possiede, non è un mucchio di pixel. Lo si può portare ovunque, lo si può prestare, regalare, sfogliare ogni volta che si vuole, anche senza elettricità. È un’illusione pensare che i tablet sostituiranno i libri di carta. Potrà forse capitare tra decenni, per ora le due tecnologie, i due supporti — digitale e fisico — andranno paralleli come binari.