«Integratevi nella città in cui emigrate, lo dovete a voi stessi»

«Integratevi nella città in cui emigrate, lo dovete a voi stessi»

LONDRA – Ci sono signore che si prendono ancora la briga di strigliare i giovani. Spronano, incoraggiano, rimettono in pista. Simonetta Agnello Horby non ha etichette da appiccicare sulla fronte di nessuno. Niente bamboccioni, choosy o svogliati. Solo una verità vissuta in prima persona e affermata con severità: «Può non valerne la pena, ma a Londra chi vuole riesce». A patto di fare sacrifici.

Siciliana, scrittrice esordiente a 57 anni con il best seller La Mennulara (Feltrinelli), una carriera da avvocato e giudice minorile conclusa da solo un anno, la signora Hornby vive a Londra dal 1972. Ci è arrivata a 17 anni per un corso di lingue a Cambridge, e vi è tornata dopo aver sposato un ragazzo inglese conosciuto durante quei quattro mesi di formazione.

«Bravi o no dobbiamo contare su di voi giovani, che siete il futuro»

Dal quartiere di Brixton, dove ha trascorso la maggior parte della sua vita, guarda all’arrivo a fiotti di giovani italiani. «Li incontro nei ristoranti in cui lavorano come camerieri, conosco i figli dei miei amici o li trovo quando mi capita di fare lezioni in università». Ma questi ragazzi, spiega, hanno poche idee chiare in testa e spesso fanno le cose «troppo di corsa» per poter riuscire in una città tosta come Londra.

«Bravi o no dobbiamo contare su di voi, siete il futuro», dice tuttavia la signora Hornby, che riconosce alla sua generazione il dovere di insegnare ai giovani. «I ragazzi italiani hanno buona preparazione accademica (“così almeno nel mio campo”, precisa, cioè la giurisprudenza, ndr), ma anche l’incapacità di lavorare: capire, analizzare, spiegare al cliente. Mancate di esperienza».

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«Ho sempre considerato il lavoro un privilegio e non un diritto. Vengo da una terra, la Sicilia, in cui la disoccupazione maschile è alta e alle donne era proibito lavorare per ragioni sociali. L’aver avuto un padre che mi ha detto: “Devi lavorare” è stata per me una libertà straordinaria». Ed è per questo che si è sempre adattata al lavoro che ha trovato. «Una volta scelto il campo, l’avvocatura, ho cercato di dare il meglio nell’impiego trovato. Io, migrante, donna con due figli e un inglese imparato a 17 anni».

«L’aver avuto un padre che mi ha detto: “Devi lavorare” è stata per me una libertà straordinaria»

Perché a Londra, spiega, si può raggiungere tutto. «Purché si lavori sodo». Compreso il passare notti in bianco pur di portare a termine una consegna. E saper dare valore a ogni impiego. «Da cosa nasce cosa, per questo occorre fare sempre del proprio meglio».

Ma occorre capire con se stessi cosa si vuole. «Nei primi anni a Londra lavoravo come avvocato nella City. Avrei potuto continuare, avrei fatto successo. Non per particolare intelligenza, ma perché mi impegnavo. Ho lasciato e ho cercato un lavoro vicino a casa, per poter stare con i miei due figli. La mia priorità era la famiglia. Sulla Law Society Gazette con le offerte di lavoro ho trovato un annuncio del comune di Lambeth (di cui Brixton è parte) per una posizione da Child Care Solicitor. Non sapevo nemmeno cosa fosse, ma mi sono presentata insieme ad altre due persone e sono stata selezionata».

Ed è iniziata così una carriera da avvocato minorile, da giudice e da docente di Diritto Minorile all’Università di Leicester.

«I servizi sociali inglesi possono istituire procedure legali per togliere la potestà genitoriale a coppie incapaci di soddisfare le esigenze del minore. Io mi occupavo di questo all’interno della municipalità di Lambeth. Insieme a casi di adozioni e maltrattamenti di minori». Nel 1979 apre il suo studio legale insieme alla socia Marcia Levy. Lo vende nel 1999 ma continua a lavorarvi come consulente fino allo scorso anno, il 2014.

Londra, sempre pronta ad accogliere l’ultimo arrivato, portato in città «da una marea del Tamigi»

A Brixton Simonetta Agnello vive gli anni delle Riots, («tre», precisa), gli scontri tra polizia e residenti di colore. «La tensione sociale era minima. Ma era forte quella della popolazione contro la polizia, che vittimizzava i maschi neri in modo pauroso. Era un conflitto di culture». «Tutto quello che era stato fatto, in particolare a Londra, per accogliere e far sentire parte della nazione gli immigrati di etnie, culture e religioni diverse, sembrava fosse stato vanificato dalla stessa polizia metropolitana», racconta ne La Mia Londra (Giunti, 2014), il libro in cui descrive il suo rapporto con l’Inghilterra, attraversando le tappe principali d un’esistenza da straniera, “viaggiatrice”, madre, moglie, avvocato. In una Londra in continuo cambiamento ma sempre pronta ad accogliere l’ultimo arrivato, portato da «una nuova marea del Tamigi».

Questa è una città che accetta e include. A patto di non commettere la «follia» di coltivare amicizie solo tra connazionali

«Il sindaco di questa città, Boris Johnson ha una nonna turca e origini ebraiche», suggerisce. Londra è una città che accetta e include. A patto di non commettere la follia di coltivare amicizie solo tra connazionali. «Capisco che è facile e bello per voi starvene sempre insieme, parlare italiano, mangiare italiano. Ma perché venite qui, allora? Rischiate solo di costruirvi un ghetto attorno», sprona. È fondamentale, per questa signora che si considera inglese, siciliana e italiana tutto insieme («a che serve fare graduatorie tra cose così fluide…»), che ci si metta in contesti britannici. «Dovete conoscere il Paese e cercare di amarlo. Dobbiamo sempre cercare di migliorare noi stessi, a partire dalla lingua, da imparare al meglio», afferma lei, conscia che «in un mondo sempre più piccolo, è di enorme aiuto avere più identità».

«Integrarsi è una questione di rispetto per se stessi»

Di fatto, Londra, la si può vivere in tanti modi. Si può rimanere stranieri. Ci si può assimilare («la besciamella è assimilazione. Gli ingredienti non si riconoscono più, sono un tutt’uno. Perdi la tua identità e chiedi di essere considerato uguale a chi ti ospita»). Oppure ci si può integrare, come accade con la macedonia: «è fatta di tanti frutti diversi, che mantengono la loro natura e il loro sapore ma condividono lo stesso contesto». E integrarsi, chiosa Simonetta Agnello Hornby, è una questione «di rispetto per se stessi».

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