Occident Ex-PressLe tasse, le news, la nostra privacy: Google si difende

opentalk

Google Immagini è nato per merito di Jennifer Lopez. «L’attrice e cantautrice di New York partecipa a un evento indossando un vestito “generoso”. Il mondo della rete si scatena alla ricerca di scatti che la ritraggano. Gli utenti non volevano una pagina con venti look differenti, ma quella foto specifica. La risposta migliore a questa ricerca non esisteva». A parlare è Simona Panseri, direttore Comunicazione e Public Affairs di Google Italia durante l’opentalk nella redazione de Linkiesta dedicato alla “grande G”. «Nasciamo come motore di ricerca, ma tutte le nostre attività di oggi sono in linea con l’idea iniziale: cercare la miglior risposta a un’esigenza». E di attività Google ne ha un’infinità: news, mail, geolocalizzazione, mappe, pubblicità. Dare una risposta alla domanda “cosa fa Google?” non è affatto semplice.

Dall’automobile che si guida da sola, fino alla lente a contatto che misura i tassi di glicemia e che potrebbe portare a una rivoluzione nel contrasto al diabete, «le nostre sperimentazioni servono a rendere fattibili progetti che a volte hanno costi fissi iniziali troppo elevati». Google finanzia alcune ricerche sperimentali e solo a quel punto parte la fase due, in partnership con alcune società – come le Telco – per la realizzazione delle infrastrutture e dei prodotti.

L’auto che si guida da sola, la lente a contatto che misura la glicemia, il Project Loon. Quante cose fa Google?

È il caso del Project Loon. «Un programma di ricerca e sviluppo per permettere l’accesso a internet in quelle aree remote o rurali a cui ancora non è garantito». Il progetto è basato sul lancio nella stratosfera – a circa 32 chilometri di altitudine – di aerostati dotati di tecnologia 3G per creare una fitta rete wi-fi. Questo perché – spiega Simona Panseri – «la prossima sfida è come portare online quelle 4 miliardi di persone che ancora non ci sono». Per tutti i progetti, da quelli in fase di attuazione a quelli più futuribili, vale sempre lo stesso principio. «Per decidere se portare avanti un’idea, questa deve avere la stessa utilità di uno spazzolino da denti usato da tutti, quotidianamente, due volte al giorno». È il motto aziendale di Lawrence “Larry” Page, l’uomo che assieme a Sergey Brin fondò Google nel 1998.

Oltre ai meriti, più volte Google si è trovata negli ultimi anni in conflitto con le istituzioni. Per questioni legate alla gestione dell’immensa mole di dati personali. Ma anche nei confronti dei business tradizionali, a cominciare dal mondo dell’editoria e dell’informazione. «Siamo assolutamente convinti della necessità di avere un’informazione sostenibile anche dal punto di vista economico. Sfatiamo il mito per il quale Google voglia solo la gratuità, sono le testate che devono decidere a che livelli di remunerazione proporre i propri prodotti», spiega Panseri. E ancora: «I nostri responsabili si sono trovati in varie occasioni dentro gruppi di lavoro insieme agli editori per decidere il da farsi, durante quelle che chiamiamo “unconference” (non-conferenze), proprio perché non hanno ordini del giorno prestabiliti in partenza durante le quali si sono stabilite delle priorità».

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Sono tre le aree principali in cui tra Google e gli editori sarà possibile trovare soluzioni cooperative. «Un dialogo dedicato allo sviluppo dei prodotti su internet, un’area di formazione per permettere ai giornalisti di aggiornarsi sugli strumenti digitali e un fondo da 150 milioni di euro, aperto agli editori, per proporre e trovare soluzioni di business che calzino a pennello su ogni singola testata, attraverso vari meccanismi: dal paywall, alla pubblicità standard, passando per i microfinanziamenti». Un fondo che servirà proprio a cercare uno o più modelli, a oggi inesistenti, che permettano l’adeguata remunerazione dell’informazione e della comunicazione online.

Nonostante le dichiarazioni di intenti, «il rapporto con l’editoria tradizionale spesso è stato acceso». Sopratutto per quanto riguarda la Google tax, un’espressione che negli anni ha raccolto diverse normative fiscali varate in Europa. Proprio nei mesi scorsi il Presidente della Fieg (Federazione Italiana Editori di Giornali), Maurizio Costa, ha attaccato il colosso della Silicon Valley per il servizio Google news – il principale aggregatore di notizie del web, che rilancia e indicizza articoli di giornale, con una preview di due righe e senza inserzioni pubblicitarie. Costa ha più volte ribadito la necessità di varare leggi calcate sui casi spagnolo e tedesco per obbligare Google ha versare una tassa nelle tasche degli editori.

Il problema è che proprio i casi tedesco e spagnolo hanno un loro risvolto grottesco: invece che pagare quella tassa, Google ha semplicemente smesso di rilanciare e indicizzare gli articoli di giornale sul servizio news. Nel giro di poche settimane sono stati gli stessi editori (con qualche rara eccezione in Germania) a tornare sui loro passi, chiedendo di disapplicare le leggi appena varate dai Parlamenti, perché il traffico di utenti sui siti era sceso di percentuali in doppia cifra. In alcuni casi anche del 40 per cento.

La Google tax varata in Spagna e Germania è stata dannosa per gli editori che la chiedevano. Hanno perso fino al 40 per cento del traffico sui siti

«Sicuramente alcuni nostri servizi hanno dato fastidio, perché ogni cambiamento che incide su forme di business preesistenti può portare a delle conflittualità». Ma per Simona Panseri l’editoria tradizionale deve anche riconoscere i vantaggi: «Google news è una fonte di traffico per i siti, nel momento in cui il contenuto appare significa che viene letto sulla testata che lo ha prodotto. Chiunque ha la possibilità di decidere se questo traffico aggiuntivo rappresenta un valore o un disvalore per la propria testata e si può scegliere di non essere indicizzati».

Più articolata è la tematica della Corporate tax: «Il tema della tassazione delle multinazionali è complesso ma che sia chiaro, Google opera rispettando le normative. Se ci sono Paesi che mettono a disposizione incentivi di carattere fiscale è normale che le aziende li utilizzino. Non spetta alle aziende fare le leggi, spetta ai legislatori. Noi abbiamo spesso ribadito che questo sistema non è adeguato. Eric Schmidt – il Presidente del cda di Google – ne ha scritto anche sul Financial Times, mentre all’Ocse ci sono gruppi di lavoro che studiano progetti per armonizzare le normative fiscali fra i diversi Paesi in Europa».

Altro tema caldo è quello dell’automazione: l’impatto delle nuove tecnologie sui mercati del lavoro e sull’occupazione. La paura di essere sostituiti dai robot nel proprio lavoro si è fatta forte negli ultimi anni, già segnati dagli elevati tassi di disoccupazione seguiti alla crisi economica. «Il tema è quello delle adeguate competenze», avverte Panseri, «l’Unione Europea prevede che ci saranno 200mila posti di lavoro nel nostro continente che non saremo in grado di coprire per mancanza di competenze. Bisogna investire su questo, perché entro il 2016 dovremo formare un milione di persone alle competenze digitali».

Non bisogna avere il terrore delle tecnologia che avanza. «Diversi studi di economisti autorevoli mostrano che per ogni posto di lavoro creato nella digital economy c’è un effetto moltiplicatore, non solo nei settori della new economy, ma anche sulle attività lavorative tradizionali. Uno studio in particolare parla degli effetti moltiplicatori su medici e infermieri». E se anche la fase di transizione dovesse avere dei risvolti negativi non bisogna dimenticare «che oggi milioni di persone possono accedere a informazioni che prima erano precluse. Questo significa il moltiplicarsi di attività che fino a pochi anni fa non erano nemmeno immaginabili. Pensare che la rivoluzione 2.0 o 3.0 significhi solo avere un esperto di internet in più nelle proprie aziende – un po’ come avveniva con i vecchi IT manager – è sbagliato. I cambiamenti sono orizzontali, si modificano i comportamenti delle persone, inclusi quelli degli utenti e dei consumatori. Cambia il bacino di riferimento».

Ogni posto di lavoro creato nella digital economy ha effetti di moltiplicazione sui lavori tradizionali

Poi ci sono i dati personali degli utenti. Negli ultimi anni, anche in seguito agli scandali e alle rivelazioni sulla sorveglianza di massa che hanno coinvolto diverse agenzie governative in giro per il mondo, è venuta formandosi una nuova coscienza sulla privacy da parte degli internauti. «Google non vende i dati degli utenti» chiarisce Simona Panseri. «Ci sono diverse modalità di fruire dei nostri servizi, alcune completamente anonime o con la navigazione in incognito, mentre per altre – come il servizio di posta elettronica – è ovvio che si debba essere loggati».

«Abbiamo messo a disposizione una serie di funzionalità nell’account personale per tutelare le proprie informazioni sensibili, da anni permettiamo agli utenti di scaricare da Google i loro contenuti se preferiscono trasferirli su piattaforme concorrenti». E sul diritto all’oblio sono stati presi provvedimenti dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea. Possiamo levare alcune informazioni, seppur nella dialettica fra tutela della privacy e diritto dell’utente di accedere alle notizie. Abbiamo attivato un modulo con cui effettuare le richieste, mentre un comitato consultivo ha girato l’Europa per svariati mesi cercando di comprendere l’entità di questi problemi, sia con la cittadinanza che con l’ausilio di giornalisti».

«Per cercare di dare trasparenza abbiamo creato una sezione nel nostro Trasparency Report – un sito dove forniamo dati sulle rimozioni che effettuiamo, sia quelle su richiesta degli utenti che quelle imposte da provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Proprio in questi giorni il Garante si è espresso in maniera molto favorevole rispetto alle decisioni che abbiamo preso nel tempo», conclude Simona Panseri. Se partendo da Jennifer Lopez si arriva al diritto all’oblio, una domanda rimane ancora senza risposta: ma quante cose fa Google?

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