Matteo Renzi ha annunciato una prossima “rivoluzione copernicana” per i prossimi tre anni: quella della riduzione delle tasse. In particolare, Renzi ha annunciato un taglio, spalmato su tre anni e per circa 45 miliardi di euro. Come da (cattiva) consuetudine, per i dettagli bisogna attendere (e, come giustamente dicono gli inglesi, the devil is in the details).
Per il momento, ci dobbiamo accontentare di notizie frammentarie e a volte contradditorie: abolizione delle imposte sulla prima casa, oltre che su terreni agricoli e “imbullonati”; rimodulazione aliquote Irpef e (forse) estensione ai pensionati del bonus degli 80 euro; nuovi interventi su Irap e tassazione di impresa. Peccato che in questa lista dei desideri non compaia, almeno per il momento, un intervento sui contributi sociali, che, come scrive Massimo Bordignon, servirebbe per accompagnare i nuovi contratti a tempo indeterminato a regime.
Se in Italia avessimo la pressione fiscale media dei Paesi Ocse, il settore privato godrebbe di circa 130 miliardi in più
Che una riduzione delle pressione fiscale in Italia sia indispensabile è incontrovertibile. Sono anni che in Italia è molto più elevata rispetto alla media Ocse: per esempio, nel 2013 la pressione fiscale in Italia era pari al 42,6 per cento, contro una media del 34,1 per cento (figura 1). Ogni punto percentuale di Pil italiano vale circa 16 miliardi: se in Italia avessimo la pressione fiscale media dei Paesi OCSE il settore privato godrebbe di circa 130 miliardi in più! Inoltre, in Italia, l’elevata pressione fiscale ricade su una platea ristretta di contribuenti, e in special modo su redditi da lavoro e impresa, con evidenti effetti distorsivi.
Figura 1: La pressione fiscale in Italia e la media Ocse
Ma ora che Renzi ci ha rassicurati, possiamo forse goderci questa estate sognando minori tasse nei prossimi anni? Purtroppo, i numeri e le informazioni a nostra disposizione suggeriscono quanto meno di essere cauti, se non proprio pessimisti. Iniziamo da una semplice osservazione: la pressione fiscale, in Italia, è elevata perché finanzia una spesa pubblica elevata. In termini nominali, la spesa pubblica è passata da circa 550 miliardi del 2001 agli 800 miliardi attuali (figura 2). Sebbene, a partire dal 2010, la sua crescita si sia interrotta, la spesa pubblica è invece ulteriormente aumentata in percentuale del PIL per la contrazione della nostra economia.
Senza una riduzione della spesa non è possibile ridurre le tasse
Ecco perché si è parlato e scritto tanto di “spending review”: senza una riduzione della spesa non è possibile ridurre le tasse. Alcuni puntano al recupero dell’evasione fiscale. Tuttavia, l’eventuale gettito recuperato deve andare a ridurre le tasse di chi le paga. In caso contrario, la pressione fiscale aumenterebbe, invece di diminuire.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Altri pensano invece a una flessibilità rispetto ai vincoli europei (portando il deficit 2016 dal 2,2 percento, ora in programma, al 1,8). Ma se il nostro governo riducesse la pressione fiscale aumentando il deficit, le famiglie e le imprese risparmierebbero una quota maggiore del proprio reddito in anticipazione delle maggiori tasse necessarie per ripagare il debito. Sempre che ci siano investitori disposti a continuare a finanziare il nostro deficit.
Visto che ministro Padoan ha bene a mente quest’ultima osservazione, lascia sorpresi che di coperture si parli ancora ben poco. Circa 10 miliardi dovrebbero venire dai tagli annunciati dal commissario alla spending review, Yoram Gutgeld. Ma questi ultimi dovrebbero essere stati già impegnati dalle ultime leggi di stabilità, pena l’entrata in vigore delle clausole di salvaguardia che aumenterebbero l’Iva.
Purtroppo, però, la spending review, a oggi, non è stata in grado di aggredire in modo significativo la spesa pubblica. La ragione è che, benché ci siano tante voci sulle quali intervenire, e in parte lo si è già fatto, in termini nominali, la voce “consumi intermedi”, sotto la quale si nascondono molti degli sprechi, vale meno di un terzo rispetto a salari e spesa sociale (in gran parte, pensioni). Se scomponiamo la spesa pubblica (figura 2) nelle sue macro-categorie principali possiamo fare interessanti osservazioni.
In primo luogo, sia la spesa per salari che quella per consumi intermedi sono prima aumentate, fino al 2010, per poi stabilizzarsi e infine diminuire, grazie anche al blocco del turn-over e dell’indicizzazione dei contratti e ai provvedimenti della spending review. In secondo luogo, la spesa sociale, in gran parte pensioni, ha continuato invece a aumentare, raggiungendo i circa 320 miliardi di euro attuali. Negli ultimi anni, le voci che sono diminuite in modo più significativo sono quelle della spesa per interessi (grazie anche all’euro e alla Bce) e in conto capitale (investimenti).
Figura 2: Scomposizione della spesa pubblica italiana
Il programma di spending review deve essere più ambizioso e con tempi più stretti
Il governo fa bene a dire di volere ridurre la pressione fiscale. Ma deve spiegare come pensa di finanziare il suo programma. Eventuali tagli, senza coperture permanenti, non sono credibili e non avrebbero, quindi, un impatto sulla domanda e sugli investimenti. Per chiudere il gap rispetto a un paese come la Germania, è necessario ridurre la pressione fiscale di circa 6 punti percentuali, o quasi 100 miliardi. Per centrare questo obiettivo, il programma di spending review deve essere più ambizioso e con tempi più stretti. Tuttavia, i numeri ci ricordano che non è possibile ridurre in maniera significativa la spesa pubblica senza intervenire sulla spesa sociale.