«Penso che sarà il volano di questa città nei prossimi anni». Se si chiede alla presidente dell’Ordine degli architetti di Milano, Valeria Bottelli, un commento sull’accordo quadro sul riutilizzo degli scali ferroviari firmato da pochi giorni, la reazione è entusiastica. L’8 luglio il Comune di Milano, la Regione Lombardia e Ferrovie dello Stato hanno messo la firma su un accordo che disegna il futuro di sette buchi neri del capoluogo lombardo: gli scali ferroviari Farini, Greco-Breda, Lambrate, Porta Genova, Porta Romana, Rogoredo e San Cristoforo. In tutto sono più di 1,2 milioni di metri quadri che giacciono in stato di abbandono. L’accordo prevede di dedicare quasi la metà di questa metratura al verde: 595mila metri quadrati, di cui 513mila destinati a parchi, il maggiore dei quale sarà un “parco lineare” da San Cristoforo a Porta Genova.
Quanto al resto, 676mila metri quadrati saranno destinati all’edilizia: 520mila mq a quella libera e 156mila a quella sociale. In tutto si parla di 2.600 nuove abitazioni di tipo “social housing” (un’evoluzione delle vecchie case popolari). Le vocazioni delle aree saranno diverse: Farini, che con 500mila metri quadrati è lo scalo maggiore (vicino alla rinnovata zona di Porta Garibaldi-Porta Nuova), vedrà un mix di commerciale ed edilizia libera (quindi residenziale), così come Porta Romana. A Porta Genova ci sarà commerciale e terziario, a San Cristoforo parco, mentre Greco, Lambrate e Rogoredo vedranno l’housing sociale.
La parola finale sull’accordo spetterà a ottobre al Consiglio comunale di Milano, poi le Ferrovie dello Stato potranno scegliere se vendere subito le aree o se preparare piani di attuazione per ogni scalo e vendere l’intero pacchetto.
I sette scali ferroviari coprono 1,2 milioni di metri quadrati. Di questi, 595mila saranno destinati al verde
«È una delle grandi occasioni di rigenerazione urbana della città», commenta l’architetto Bottelli. «Se il capitolo delle aree ex industriali è praticamente chiuso, rimanevano aperti quello delle caserme e quello degli scali ferroviari. Questi interventi possono cambiare il volto di Milano, perché interessano molte zone semi-centrali, o semi-periferiche. Sono molto contenta che questo sia stato uno degli ultimi atti dell’assessore Ada Lucia De Cesaris», il vice-sindaco della giunta Pisapia che si è dimessa qualche giorno fa in polemica con il suo partito, il Pd.
All’ex assessore, Valeria Bottelli riconosce di aver cambiato un progetto che ai tempi della giunta Moratti era molto diverso. «È stato cambiato, perché nel frattempo è stato rifatto il Pgt (piano di governo del territorio, ndr), che è molto più attento al verde e alla mobilità dolce. L’accordo quadro sugli scali prevede indici edificatori minori e un mix tra residenziale, verde e funzioni che può creare dei nuovi quartieri, non semplicemente dei nuovi dormitori. Segue quello che si è fatto in Europa». Anche il verde, «che è moltissimo», può svolgere una funzione di cucitura tra diverse zone. «Il parco lineare tra Porta Genova e San Cristoforo metterà in comunicazione la zona dei Navigli e quella di via Tortona, che sono sempre state separate dal muro della ferrovia». Per il presidente degli architetti milanesi, «non abbiamo bisogno di tanti metri quadrati di edilizia in più, abbiamo bisogno di un modo di vivere differente. L’evoluzione della città va in questa direzione».
Al cambiamento del progetto, a partire dal primo accordo quadro del 2005, è dedicato un paper di Elena Mussinelli e Cristina Marchegiani, docenti del Dipartimento Best del Politecnico di Milano. Una delle evidenze principali è che in precedenza l’area edificabile era di 847mila mq, contro i 676mila attuali.
Che cosa succederebbe nel caso di un cambio di colore della giunta, alle elezioni del 2016? «Il Pgt ormai è approvato e l’accordo è stato firmato: grandi cambiamenti non si possono fare», risponde Valeria Bottelli. «Ci sono però i piani di attuazione, che prevederanno dei concorsi per i progetti. Sarà tutto da creare. Spero sia la volta buona che Milano si doti di architetture e soluzioni urbanistiche all’avanguardia».
Valeria Bottelli: «È una delle grandi occasioni di rigenerazione urbana della città. Questi interventi possono cambiare il volto di Milano»
Quanto sistemare gli scali ferroviari possano cambiare il volto delle città lo dice il caso di Torino. «Era tagliata in due da Nord a Sud dall’asse ferroviaria tra Porta Nuova e Porta Susa. Con l’abbassamento delle trincee e la conseguente copertura dei binari, la città è stata ricucita», dice Paolo Mellano, professore ordinario del Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino. «Dal punto di vista urbanistico è stto un processo favorevole. A quanto mi dicono, anche dal punto di vista immobiliare è stato un successo». Nelle aree coperte ci sono diversi edifici nuovi di una certa rilevanza, tra cui il nuovo grattacielo di Intesa Sanpaolo.
Il vero tema, anche a Milano, sarà attrarre gli investimenti, perché il mercato immobiliare dà segni di ripresa minimi e quello delle costruzioni continua la sua lunga discesa. «La crisi immobiliare però è a macchia di leopardo – dice Valeria Bottelli -. Quando ci sono dei progetti che hanno un senso e un iter legislativo agevolato, gli investimenti arrivano, anche da parte degli stranieri», come nel caso del quartiere Porta Nuova, dove i grattacieli sono stati acquistati da Qatar Holding.
A raffreddare gli entusiasmi per il piano ci pensa Dario Ballotta, responsabile dei trasporti e viabilità di Legambiente Lombardia. «Il primo appunto è che questa vicenda si è trascinata per moltissimo tempo – nota -. Inoltre, lascia un po’ perplessi la scelta di non fare alcun tipo di recupero ferroviario». Gli scali, pensati per una città industriale, sono stati via via abbandonati. «Si poteva però recuperare qualcosa come funzione ferroviaria, sia per i passeggeri sia per la logistica, che oggi è praticamente mono-modale», ossia tutta affidata ai camion. «Qualcosa si poteva fare per far penetrare dei treni completi per la grande distribuzione nel cuore della città, come avviene in molti esempi europei». Promosso, invece, l’aumento del verde, mentre «la quota del social housing e quella dell’edilizia libera si doveva ribaltare. Il rapporto è troppo sbilanciato sull’edilizia libera».
Una critica che però non vede d’accordo Valeria Bottelli: «2.600 abitazioni di housing sociali sono un buon numero. Bisogna ricordare che non sono le vecchie case popolari, ma una tipologia di abitazione a costo ridotto che si rivolge a un ceto diversificato. È la strada seguita per esempio dalla Germania e dalla Danimarca».