Cina, il problema non è economico ma politico

La crisi del Dragone

Dopo il “lunedì nero” di fine agosto, in cui i mercati mondiali hanno registrato perdite per centinaia di miliardi di euro, esperti e meno esperti hanno discusso animatamente e ampiamente delle cause, dei rischi e delle possibili soluzioni rispetto a quanto avvenuto.

L’epicentro, a detta di tutti, è la Cina. La borsa di Shanghai ha inanellato una lunga serie di performance negative a partire dallo scorso giugno e lunedì 24 agosto ha fatto tremare tutti i mercati con il suo indice a picco (anche se lo stesso indice è ancora in positivo rispetto a inizio anno). È possibile riassumere la tesi prevalente come segue: le prospettive di crescita della Cina sembrano essere meno rosee del previsto, con un tasso di crescita del Pil rivisto, in ribasso, dal 7 al 5 per cento annuo. Quindi, bisogna attendersi minore domanda per l’export mondiale e in particolare per le materie prime di cui sono ricchi i cosiddetti Paesi emergenti. E, infatti, i prezzi di oro e acciaio sono ai minimi storici.

Questa tesi non è sicuramente campata per aria ma, da sola, non spiega quanto avvenuto. Una piena comprensione del recente nervosismo sui mercati azionari è fondamentale per valutare meglio i rischi che incorriamo: dal piccolo risparmiatore, alla piccola e grande impresa, fino al sistema economico globale.

Innanzi tutto, se il problema fosse il semplice rallentamento del ritmo di crescita della Cina ci dovremmo attendere una riduzione, magari anche accentuata, dei corsi azionari, ma non necessariamente l’enorme variabilità che invece li contraddistingue, con i mercati come montagne russe. Difficile però immaginare che le prospettive di crescita di un Paese possano cambiare radicalmente da un giorno all’altro.

Il timore di fondo dei mercati, più che di un rallentamento, è invece legato a un possibile collasso dell’economia cinese

Il timore di fondo dei mercati, più che di un rallentamento, è invece legato a un possibile collasso dell’economia cinese. Ed ecco che ogni manovra decisa dal governo cinese e dalla sua banca centrale (svalutazione dello Yuan, riduzione delle riserve obbligatorie bancarie, acquisti di titoli azionari, etc.) viene sviscerata per capire se va nella direzione giusta non tanto per rilanciare la crescita, ma piuttosto per evitare la catastrofe.

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Nel caso della Cina la “catastrofe” è quella politica, più che economica. Perché la coesione e stabilità sociale, in un Paese come la Cina, è garantita solo da ritmi di crescita da Formula 1. Ed ecco che tragedie come quella di Tianjin assumono un rilevanza critica, in quanto scoprono un governo cinese non in controllo della situazione, sia rispetto alla prevenzione che alla gestione dell’accaduto. 

Le iniezioni di liquidità e riduzione dei tassi di interesse hanno poco senso dal punto di vista economico di lungo periodo. L’obiettivo è politico

Ed è secondo questa chiave che vanno lette anche le ultime mosse del governo cinese: le iniezioni di liquidità e riduzione dei tassi di interesse hanno poco senso dal punto di vista economico di lungo periodo. È infatti chiaro come in Cina vi sia una bolla, soprattutto nel mercato immobiliare (basti pensare che sono in costruzione 5,6 miliardi di metri quadrati di superfice, come ventisettemila Empire State Building!), alimentata proprio dal credito facile e allocato non secondo criteri di mercato. Tuttavia, il governo cinese cerca di utilizzare l’enorme quantità di riserve, opportunamente accumulata, per raggiungere un obiettivo politico: quello della stabilità del paese nella fase delicata di transizione da economia rurale e centralizzata a economia moderna e di mercato. 

È questa una scommessa che dobbiamo sperare il governo cinese vinca. Nel frattempo, è probabile che gli investitori si spostino verso lidi più sicuri, come i titoli di stato del governo americano, spingendo verso l’alto il dollaro e verso il basso i tassi di interesse dei paesi considerati più affidabili.

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