A pochi mesi dalla tornata elettorale dello scorso giugno quando l’Akp, in sella dal 2002, ha perduto la maggioranza assoluta, la Turchia sarà richiamata alle urne entro 90 giorni. Di fronte al fallimento dei negoziati e all’impossibilità di formare un governo di coalizione, il primo ministro Ahmet Davutoglu ha rimesso il suo mandato al presidente Recep Tayyip Erdogan.
Dopo l’instabilità degli ultimi due mesi, per la Turchia si apre una nuova fase. I maligni sostengono che l’Akp, all’indomani dei deludenti risultati di giugno, abbia cercato con insistenza la possibilità del ritorno alle urne, riuscendoci alla fine. Intanto il presidente turco punta all’approvazione di una nuova Costituzione per rafforzare i suoi poteri. È stato proprio il risultato del pro-curdo Partito Democratico dei Popoli (Hdp) il 7 giugno scorso a sbarrare la strada alla creazione di una repubblica presidenziale, con l’Akp che ha perso la maggioranza ed è stato costretto a cercare un’improbabile alleanza con il Chp (il Partito Repubblicano del Popolo) di Kilicdaroglu. Ora, con la prospettiva di elezioni anticipate ed i sondaggi che danno l’Akp di nuovo al 43 per cento, il “sogno” di un’elezione diretta del presidente della Repubblica appare nuovamente possibile.
I fronti aperti per il presidente si sono moltiplicati. In Siria e Iraq, l’Isis minaccia la Turchia e in un nuovo video, apparso sul web, il sedicente Stato Islamico minaccia il governo turco, reo di aver svenduto il paese agli “atei” del Pkk ed ai “crociati” americani. Infuriano intanto gli scontri tra le forze turche ed i guerriglieri del Pkk: mercoledì 19 una bomba ha ucciso otto soldati turchi al passaggio del mezzo su cui viaggiavano nella provincia di Siirt, nel sud-est del Paese. Nella stessa giornata ci sono stati nuovamente spari a Istanbul. Colpi di arma da fuoco sono stati esplosi presso dell’ingresso del palazzo di Dolmabahce, sede del primo ministro dimissionario Ahmet Davutoglu. Non ci sono stati morti né feriti, ma l’attacco è solo l’ultimo di una serie di assalti alle sedi di partiti e istituzioni: dopo quelli di aprile contro un commissariato e la sede dell’Akp, si sono avuti quelli dell’8 agosto (attacco a una sede del partito Giustizia e Sviluppo, un morto) e quelli in serie del 10 agosto. In quella giornata era finito sotto attacco un commissariato a Istanbul, quattro agenti di polizia erano stati uccisi da una mina nel sudest della Turchia e spari avevano colpito il consolato Usa.
Mentre l’instabilità si aggrava, Erdogan prepara accuratamente il fronte interno. Ma per realizzare il suo progetto presidenzialista, deve sbarazzarsi anche di coloro di cui si è servito a lungo per tagliare prima la testa ai quadri delle gerarchie militari e poi spazzare via dalla scena politica gli ex alleati, ovvero la potente confraternita Gulen che aveva contribuito in passato all’ascesa dell’Akp.
In quest’ottica, Zekerya Öz è diventato un personaggio troppo scomodo. Zekerya Öz è stato il procuratore speciale a capo della maxi inchiesta soprannominata “Ergenekon”. Nel giugno del 2007 nel quartiere-bidonville d’Ümraniye ad Istanbul, la polizia ritrovava granate, esplosivo e materiale per preparare bombe. Inizialmente considerato come un affare concernente gruppi terroristi legati all’estrema sinistra o al terrorismo di matrice curda, il ritrovamento rivela invece l’esistenza di una rete criminale sotterranea sostenuta da militari di alto rango e civili. L’obiettivo, rovesciare il governo dell’Akp e, grazie al caos generato, istituire una dittatura militare. Grazie all’inchiesta partita dal procuratore Oz vengono condannati centinaia di presunti golpisti (militari, esponenti politici, giornalisti) . Nel 2013 scoppia un nuovo scandalo, una vera e propria Tangentopoli. Al vaglio della magistratura decine di appalti legati a transazioni fraudolente, concessioni e tangenti nelle quali sono implicati anche alcuni membri della famiglia dell’allora premier, uno scandalo quantificato in 100 miliardi di dollari. Nel giorno di Natale ben tre ministri si dimettono (il ministro degli interni Muammer Güler, il ministro dell’economia Zafer Çağlayan ed il ministro dell’ambiente Erdoğan Bayraktar). L’arresto di 52 personaggi della nomenclatura per un affare di tangenti e corruzione provoca la reazione veemente dell’establishment del premier che per tutta risposta defenestra 500 dirigenti e funzionari di polizia di cui 400 solo ad Istanbul. Dall’inizio dell’inchiesta, che punta al cuore dell’establishment dell’Akp, il premier risponde con misure politiche e amministrative con lo scopo di affossare uno scandalo di dimensioni bibliche.
Nel calderone delle purghe finiscono gli stessi inquirenti a capo dell’inchiesta anti-corruzione che aveva investito il governo: il procuratore Zekeriya Öz e il capo della polizia di Istanbul Selami Altınok
L’enorme pressione che il potere politico mette subito sulla magistratura è simboleggiata dal gesto del procuratore Zekeriya Öz, che si era già messo in luce nell’ambito dell’inchiesta Ergenekon. Il procuratore mette sotto protezione diverse registrazioni di conversazioni telefoniche di figli di ministri implicati nello scandalo. Non solo, ne spedisce copie anche al Dipartimento di polizia d’Istanbul. Ma, come accennato in precedenza, nell’inchiesta vengono coinvolti non solo ministri ma anche il figlio dell’allora premier, il “delfino” Bilal. Da quel momento la reazione del governo si fa più aggressiva e partono le “purghe” in tutta la Turchia che portano al siluramento o al trasferimento di ben 1700 persone all’interno degli organi di polizia. Come denunciò all’epoca l’editorialista Mehmet Tezkan dalla colonne del Milliyet, la polizia nazionale dopo le purghe si trova «letteralmente sventrata». Nel calderone delle purghe dell’Akp finiscono anche alti funzionari del ministero delle Finanze e dei Trasporti e gli stessi inquirenti a capo dell’inchiesta anti-corruzione che aveva investito il governo ovvero il procuratore Zekeriya Öz, Muammer Akkaş e il capo della polizia di Istanbul Selami Altınok.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Erdogan tra l’altro si serve di questi processi (“Ergenekon”, ma anche “Balyoz” scoperchiato da un giornalista che si trova tutt’ora in prigione) per tagliare la testa all’esercito e ai quadri militari e fare piazza pulita di quello che restava dell’apparato kemalista della Turchia, ma anche dei nuovi “nemici” gulenisti ai quali è stato dato il benservito dopo l’iniziale sostegno. Dopo aver sventato e scoperto complotti di ogni genere oggi il procuratore Zekerya Öz è accusato di aver ordito un complotto contro il presidente Erdogan. Sulla sua testa e su quella degli altri procuratori che lavoravano sul caso (Celal Kara et Mehmet Yüzgec) pende un mandato di cattura. I magistrati anti-corruzione sono accusati di “aver fondato un’organizzazione a delinquere” e di voler “rovesciare il governo turco”. Fonti turche riprese dal quotidiano Hurriyet segnalano la fuga del celebre magistrato in Germania dopo un periplo tra Georgia ed Armenia. «Ieri era celebrato come un eroe, oggi è considerato un traditore» ha commentato Yusuf Öz, cugino del procuratore e deputato parlamentare.
Sul fronte stampa la situazione non migliora. È di alcuni giorni fa la notizia del processo a danno di 18 giornalisti, di ben 9 diversi quotidiani, accusati di fare propaganda per conto di un’organizzazione terroristica dopo la pubblicazione delle foto del sequestro del magistrato Kiraz nel Palazzo di Giustizia d’Istanbul. Il procuratore, che ha preparato i capi d’accusa che sono stati resi pubblici alcuni giorni fa, ha chiesto per questi giornalisti fino a 7 anni di prigione. Sette anni di prigione dunque semplicemente per aver fatto giornalismo, ovvero aver pubblicato le foto drammatiche del procuratore in ostaggio poi morto nel blitz delle teste di cuoio turche all’interno del Palazzo di Giustizia d’Istanbul. In quel frangente il governo ha imposto un vero e proprio «coprifuoco mediatico». Nessuna notizia doveva trapelare per non mettere a repentaglio la vita del giudice. Almeno questa la giustificazione, che ha basi giuridiche in una norma che consente al premier di ordinare la censura se in ballo c’è la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico. Negli ultimi quattro anni sono stati emessi almeno 150 di questi ordini. Questo dà la misura del bavaglio che esiste in Turchia, un paese in cui leggi antiterrorismo, tribunali e pure servizi segreti vengono usati per reprimere la libertà di stampa. Sul fronte caldo dell’Est turco i giornalisti rischiano la vita o subiscono ogni genere di violenza perché spesso equiparati a “militanti” o “terroristi” del Pkk come accaduto ad Ahmet Akkuş dell’agenzia stampa Doğan ed Arif Altunkaynak dell’agenzia stampa Anadolu.
È di alcuni giorni fa la notizia del processo a danno di 18 giornalisti, di ben 9 diversi quotidiani, accusati di fare propaganda per conto di un’organizzazione terroristica
Ci sono attualmente 25 giornalisti in prigione, la Turchia nel 2015 è classificata 149esima (su 180) tra i paesi che limitano maggiormente la libertà di stampa secondo le stime di RSF (Reporters Sans Frontières) ed il governo continua a bloccare i social network ed a censurare siti, quotidiani e giornalisti nel momento in cui scrivono e pubblicano notizie non gradite alle autorità. Per l’affare del sequestro di Kiraz 166 siti sono stati censurati e a ben 13 media sono stati rifiutati accrediti per seguire il funerale. Di alcuni giorni fa è anche la notizia del licenziamento dell’importante giornalista Kadri Gursel dal quotidiano Milliyet, reo di aver accusato, in suo editoriale, il presidente Erdogan di essere dietro all’attentato di Suruç, attentato in cui hanno perso la vita 32 giovani attivisti tra cui militanti socialisti turchi e attivisti curdi che si apprestavano a compiere un viaggio verso Kobane per aiutare nella ricostruzione della città distrutta dall’Isis. Kadri Gursel è anche il rappresentante in Turchia dell’International Press Institute (IPI). Il quotidiano ha giustificato il licenziamento affermando che la condotta di Gursel non corrisponde ai codici di condotta del giornale. Alcuni mesi fa era stato il turno del direttore del giornale d’opposizione Cumhuryet. Per il giornalista Can Dundar era stata chiesta addirittura una condanna all’ergastolo semplicemente per aver pubblicato alcune foto che dimostravano il passaggio di armi dalla Turchia alla Siria, direzione Isis.
Decine di giornalisti sono poi attualmente indagati nell’ambito di un’inchiesta aperta dalla magistratura per messaggi su twitter critici dell’operato dell’agenzia di stampa governativa Anadolu durante le elezioni amministrative del 2014. La battaglia per trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale continua dunque, con il fine del raggiungimento di un regime presidenziale che giustifica qualunque mezzo. Tra questi, annichilire l’opposizione, imbavagliare la stampa, intimorire la magistratura, fare guerra senza frontiere al Pkk per recuperare nuovi voti ai nazionalisti e all’estrema destra alle prossime elezioni. Coloro che dopo le elezioni di giugno avevano visto un Erdogan al tappeto dovranno ricredersi.
@marco_cesario