Meritocrazia, un voto alto è più importante che parlare inglese

Il dibattito

Il sospetto che in Italia ci sia un’idea “rusticana” di quali sfide la globalizzazione comporti per il sistema economico e per le struttura tecniche dello Stato viene nel momento in cui si apprende che nei concorsi pubblici si sostituirà il requisito del voto minimo di laurea con la conoscenza della lingua inglese. Ne abbiamo scritto, di questa curiosa novità della riforma Madia, e l’articolo ha suscitato numerose reazioni. Quello che forse più ha colpito, in positivo e in negativo, alcuni lettori è l’interpretazione che ne abbiamo dato, come esemplificazione del processo di “svalutazione” della meritocrazia scolastica e del suo ruolo nella promozione dell’inclusione e della mobilità sociale, un processo che è in atto da tempo e che la Pubblica Amministrazione, al posto di contrastare, con un segnale come questo certifica e aggrava. Ad esempio, Niccolò Boggian, direttore del Forum della meritocrazia, intervistato da Linkiesta, ha detto che «abolendo il requisito minimo si privilegiano anche ragazzi che magari che mentre studiavano, hanno pure lavorato». Aggiungendo che  «è importante che i giovani imparino facciano esperienze. E che parlino inglese».

«Nei concorsi pubblici si sostituirà il requisito del voto minimo di laurea con la conoscenza della lingua inglese»

Non si vuole mettere in dubbio che il “voto di laurea”, se gestito senza considerare la qualità, per esempio, dell’ateneo di provenienza o la difficoltà dei diversi corsi, abbia perso molta importanza nella selezione del personale. E il vuoto è stato colmato a favore di altre risorse “relazionali” del candidato, come ad esempio la padronanza di un inglese fluente, l’ambiente sociale di provenienza o le esperienze sportive e civili. Il fenomeno dipende da una varietà di fattori: la dispersione della qualità dell’istruzione universitaria, su cui torneremo in seguito; l’evoluzione della struttura produttiva italiana e il posizionamento del nostro Paese nei processi della globalizzazione.

Se guardiamo a un ideale processo di selezione, per determinare il peso da attribuire al curriculum scolastico dobbiamo infatti capire che futuro abbiamo in mente per l’Italia. Se vogliamo rinunciare alle ambizioni di potenza industriale, assecondando i desiderata dei nostri competitor tradizionali (soprattutto tedeschi e francesi), possiamo specializzarci nella grande bellezza del food e del turismo. In un futuro così, forse abbiamo più bisogno di intrattenitori e commerciali che di tecnici e di innovatori. Quindi, non solo inglese, ma anche tedesco, o russo: un po’ come per la selezione del personale in via della Spiga o all’Expo. E, se il candidato è “secchione”, meglio che non lo manifesti perché la cosa potrebbe mettere a disagio il cliente.

Non sta ancora scritto da nessuna parte che il nostro destino nell’economia globalizzata sia quello di fare gli animatori o i sales per la distribuzione dei prodotti altrui

Ma l’Italia è ancora la seconda potenza manifatturiera d’Europa e in molti settori siamo leader nell’innovazione tecnologica. Non sta ancora scritto da nessuna parte che il nostro destino nell’economia globalizzata sia quello di fare gli animatori o i sales per la distribuzione dei prodotti altrui. Se per il nostro futuro vediamo un posto a fianco della Germania o della Corea, allora la scuola deve essere impegnativa, difficile e soprattutto deve essere valorizzata ai fini dell’accesso al mondo del lavoro. I “voti” devono contare, in altre parole. Nel settore privato, così come nella pubblica amministrazione. In Asia, dove batte oggi il cuore del capitalismo e del progresso, hanno capito l’importanza della scuola e ci sono enormi investimenti pubblici e privati in istruzione. Non è un caso che, ormai in tutte le materie, comprese quelle delle arti occidentali, primeggino nelle classifiche internazionali gli studenti asiatici.   

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

In un recente intervento sulla New York Review of Books, il premio Nobel Edmund Phelps si è interrogato su quale siano le ragioni ultime del declino delle economie occidentali. Come fare per ristabilire quella che A. Lincoln, in un suo viaggio per gli Stati Uniti nel 1858, definì “a perfect rage for the new” (“quel perfetto, rabbioso desiderio di nuovo”)? La risposta che Phelps ha dato è che le libertà economiche da sole non siano sufficienti ad assicurare il dinamismo necessario per immaginare e creare un nuovo futuro. E non basta più nemmeno il welfare state. Le persone non vogliono solo poter evitare la miseria o essere curate con i migliori medicinali a disposizione. Le persone vogliono un lavoro soddisfacente e vogliono che ci sia meritocrazia, cioè la possibilità per loro ma soprattutto per i loro figli di salire la scala sociale, se ne hanno le capacità.

Il dinamismo deve essere nutrito da un sistema di valori morali, saldo e vivo. E questo sistema di valori si ottiene rivalutando il ruolo della scuola e dell’educazione. Una scuola che non fornisca solo conoscenza, ma che consenta anche di mantenere attiva la funzione di “ascensore sociale”, fornendo ai ragazzi che provengono dai ceti sociali meno abbienti una palestra dove poter gareggiare ad armi pari e vincere.

Il dinamismo deve essere nutrito da un sistema di valori morali, saldo e vivo. E questo sistema di valori si ottiene rivalutando il ruolo della scuola e dell’educazione

La gara però non deve essere falsata da regole e giudizi che cambiano in maniera più o meno arbitraria. Ha ragione chi sostiene che, oggi in Italia, nonostante il valore legale dei titolo di studio, esiste troppa disomogeneità, soprattutto territoriale, tra la qualità dell’insegnamento e di conseguenza il valore dei “voti”. Ma cosa farebbe un’azienda se i propri centri interni di formazione sfornassero tecnici dalla qualità così disomogenea da rendere quasi inutili le certificazioni di fine corso? La risposta è banale: o li chiude e li esternalizza o interviene per rivoltali come un calzino.

Il Governo dovrebbe fare altrettanto. O adotta un modello “privatistico” di tipo americano o decide di riformare scuole secondarie e università affinché il “prodotto” sia accettabilmente omogeneo su tutto il territorio. Ma quello che non deve fare è adattarsi allo status quo, perché il decadimento progressivo del sistema pubblico di istruzione e formazione senza i correttivi presenti nei sistemi “privatistici” può avere risvolti sociali ed economici pericolosi per la stabilità e la competitività del sistema economico. Borse di studio per i meritevoli, prestiti per studenti, campus o agevolazioni logistiche, sistemi trasparenti di certificazione e classificazione della qualità dei vari atenei e dei docenti in ruolo non sono quasi contemplati oggi in Italia perché le risorse sono totalmente assorbite per tenere in piedi un simulacro di sistema pubblico universale.

E chiudiamo con la lingua inglese. Premesso che non è specificato quale livello di conoscenza della lingua sia richiesto per accedere ai concorsi pubblici, anche i camerieri di Sua Maestà parlano un inglese fluente, ma non sanno costruire un ponte o redigere il bilancio di una Asl. Certo che nel mondo globalizzato le lingue sono importanti e lo Stato dovrebbe preoccuparsi che la scuola insegni l’inglese a tutti i ragazzi italiani. Se si curasse veramente della qualità del “prodotto scolastico”, il requisito della lingua inglese nei concorsi sarebbe ridondante rispetto al completamento del ciclo scolastico: è già materia obbligatoria. Ovviamente, nessuno si illude che anche nella migliore delle scuole italiane (se non si decide di rinunciare all’insegnamento nella madrelingua) si possa apprendere un inglese veramente fluente. Ma quante posizioni nella Pa o nell’industria lo richiedono? Il nostro Premier, come molti suoi illustri predecessori e la stragrande maggioranza dei Ceo italiani, ha una padronanza approssimativa della pronuncia inglese, eppure questo non ne ha bloccato l’energica attività riformatrice, non è stata di ostacolo nelle trattative che si sono svolte in Europa per salvare la Grecia e, purtroppo, non gli impedisce nemmeno di parlare a braccio con la stampa estera. 

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