«Non serve andare a Londra per realizzare noi stessi»

Partire o restare?

Gabriele Giacomini, 29 anni, non è un expat e mai lo sarà (o così forse spera). Dalla città di Udine combatte la «falsa retorica» che ammalia migliaia di «giovani di belle speranze», quella della «libertà di andare a Londra a realizzare se stessi, della mobilità, e del successo cercato all’estero». È una retorica falsa, afferma con determinazione, «che ci frega» e ci fa danno, dice lui, sia come singoli, che come generazione. «E invece in Italia dobbiamo restare e lottare».

«I giovani spesso assecondano questo consiglio alla fuga dettato dallo spirito dei tempi. Ma ne rimangono contenti? È quello che vorrebbero?», si chiede con coraggio questo giovane adulto laureato in Filosofia in un libro scritto a quattro mani con Furio Honsell, 57 anni, docente di Informatica ed ex rettore dell’Università di Udine. Insieme hanno composto un phamplet in cui ragionano sul conflitto tra generazioni nell’Italia di oggi (Prima che sia domani. Padri, figli un’alleanza per ripartire, Mimesis). Honsell è un sessantottino, membro di quella generazione autrice sì di spinte democratiche ed egualitarie, ma che ha anche «progressivamente piegato a suo vantaggio la parabola del progresso» imponendo un «totalitarismo generazionale», autodenuncia lui stesso. Gabriele un giovane che ha appena concluso un dottorato in Neuroscienze al San Raffaele di Milano, scelto da Honsell come assessore allo Sviluppo del Comune di Udine di cui lui è sindaco, e con una voglia enorme di conquistare spazio ai giovani. In Italia.

«Spesso te ne accorgi troppo tardi. Vuoi fare un’esperienza all’estero e finisci incastrato tra progetti professionali all’estero e relazioni deboli con il paese di origine»

Le parole di Gabriele non sono facili da leggere e da digerire, specie per chi vive l’esperienza di expat. Perché in fondo c’è molto di vero. «Una volta andati, una volta partiti, è molto difficile tornare indietro. Spesso un volo low cost da alcune centinaia di euro, se non decine, si trasforma in un trasferimento permanente. Biglietto di sola andata. Molti se ne accorgono troppo tardi. Volevano fare un’esperienza, conoscere il mondo, e poi si ritrovano incastrati fra concreti progetti professionali all’estero, e relazioni deboli e di scarsa prospettiva con il Paese d’origine», scrive. «Spesso si ritrovano in una morsa. Da un lato vorrebbero poter tornare. I propri natali, la propria piccola patria, i legami familiari, la propria lingua, il debito di riconoscenza verso la propria terra d’origine, il marchio culturale non sono aspetti secondari per una vita completa e soddisfacente». Sono parole, quelle di Gabriele, raccolte confrontando le vite di amici partiti e tornati per troppa nostalgia del Paese di origine. L’espatrio, ci dice, è sempre un dramma «anche se fatto con la valigia di carbonio».

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Ma non è tutto qui. Non c’è solo la sensazione che le migliaia di ragazzi usciti dalle nebbie italiane non potranno mai trovare una felicità piena oltre confine. C’è la convinzione forte che tutto ciò porti un danno irreparabile per chi resta.

«Da un lato capisco chi se ne va, conosco le difficoltà che ci sono. Le vivo. Ma in questo modo i giovani più preparati, quell’elite che potrebbe dirigere l’Italia di domani o provare ora a cambiare le cose, se ne va altrove. La parte più motivata se ne va all’estero. E io che resto a lottare da solo sono molto più solo di quanto potrei esserlo altrimenti».

«La parte più motivata se ne va all’estero. E io resto a lottare da solo contro dirigenti che tutelano con le unghie e con i denti i loro diritti»

Gabriele sperimenta da assessore la fatica di confrontarsi con chi non parla la sua lingua e non vive i suoi problemi. «Chi invece li condivide è lontano da me. È in Francia o in Inghilterra. E io sono solo contro i molti che non vogliono cambiare, che stanno bene dove sono, che tutelano i loro diritti con le unghie e con i denti e continueranno a farlo finché una minoranza organizzata di giovani non imporrà i suoi temi. Ma non può farlo per procura o via internet. Devi essere presente per farti conoscere e inserirti nelle nicchie. È difficile, a volte davvero da disperarsi. Spesso devi scendere a compromessi. Ma ogni processo politico è sofferenza e difficoltà. Per questo vorrei che chi è fuori tornasse a dare un contributo, perché restando all’estero non crea le condizioni per il cambiamento».

Gabriele cita la storia pubblicata qualche settimana fa su Linkiesta di una giovane italiana che a Rotterdam crea applicazioni per semplificare la burocrazia olandese. Lei vorrebbe rientrare e fare lo stesso lavoro per l’Italia. «È triste dirlo, commenta lui, ma se vuole tornare deve venire e lottare. Restando lassù, in Olanda, non troverà mai l’opportunità che cerca».

Da Assessore allo Sviluppo, tra gli uffici tecnici di un capoluogo di 100.000 abitanti quale Udine, Giacomini sperimenta tutti i giorni la fatica di farsi spazio e di portare avanti i suoi progetti. È facilitato dall’avere un sindaco che lo ha scelto e ha scommesso su di lui e sugli altri giovani assessori voluti in giunta (l’età media è inferiore ai 38 anni). Ma questo non impedisce ad esempio che i dirigenti responsabili del bilancio comunale cancellino senza nemmeno avvertirlo il suo piano di tirocini per neolaureati dell’Università di Udine.

Gabriele Giacomini, 29 anni, al Bar Caugich Di Udine durante la campagna elettorale per le amministrative 2013

«Da quando sono arrivato ho voluto creare una piccola novità. Abbiamo un’università in città che dà a Udine un valore incredibile. Ho creato un piano di stage per neolaureati da meno di un anno nei diversi uffici tecnici del Comune. Abbiamo investito 38.000 euro lo scorso anno per 18 ragazzi, quest’anno 40.000 euro per 12 ragazzi, dando loro un’indennità maggiore e impiegandoli a tempo pieno. Io attribuisco a questo progetto enorme importanza perché conosco la voglia che un neolaureato ha di fare esperienza e la necessità di mettersi alla prova per capire quale strada prendere», desideri spesso bloccati da mancanza di opportunità lavorative. «Una ragazza coinvolta nell’esperienza mi ha preso da parte un giorno dicendomi: “Ti ringrazio, sono felice perché qui ora ho un senso, un posto in cui stare”. Ma le vecchie guardie questo non lo capiscono. Il blocco del turn-over nella pubblica amministrazione ci costringe a confrontarci con dirigenti sempre più anziani». Quelli che delle esigenze dei giovani di oggi colgono poco nulla.

«Gli espatriati non possono dimenticare l’Italia»

«Un anno fa ho lanciato un bando insieme alla Camera di commercio per dare fondi a giovani con progetti innovativi di impresa nel comune di Udine», racconta ancora Giacomini. «Due start-up hanno vinto. Un giorno, parlando con un dirigente comunale l’ho sentito commentare: “lo facciamo simile a quella roba là, quella roba dei ragazzini”. “Guardi che non sono dei ragazzini”, ho replicato, “sono vincitori con un dottorato di ricerca, con percorsi di incubazione in un parco scientifico tecnologico alle spalle”. “Ah, ma sa che queste cose non mi convincono”, ha ribattuto. C’è disprezzo, svalutazione, incomprensione». In un contesto simile la politica diventa «lotta con un coltello tra i denti», racconta Gabriele, convinto però che valga la pena farla, questa lotta, e che sia l’unica strada percorribile per i giovani italiani.

«Gli espatriati non possono dimenticare l’Italia. Tutti i processi storici di cambiamento nel passato sono stati fatti da una minoranza organizzata, consapevole e coesa. Dal Risorgimento italiano con la Giovine Italia, alla Resistenza fino al Sessantotto». Ma i giovani oggi sono frammentati. Vittime, spiega lui nel libro, di processi innescati prima ancora che nascessero, dall’individualismo dei sessantottini che si sono opposti ad autorità e istituzioni, e al neoliberismo della destra. Processi che hanno cancellato la parte sociale e relazionale della persona, e ci hanno reso, noi giovani adulti di oggi, incapaci di fare massa critica, ognuno perso a cercare di realizzare il suo sogno professionale, a inseguire un successo anche a costo di perdere il legame con il paese natale e la propria famiglia.

«Troveremo mai casa, radici, pienezza di vita in un paese che non è il nostro?»

«Nell’andare a Londra a cercare spazi c’è tanta retorica e poca vera libertà. È difficile stare fuori. È dura. Sei l’ultimo arrivato. Se ci impegnassimo un po’ e tenessimo duro anche in politica, io sono convinto che qualcosa possiamo fare. Ho esempi concreti che se tieni duro e lotti, alla fine ce la fai». Gabriele cita l’economista tedesco Albert Hirschman: le persone, dice, possono avere tre atteggiamenti verso le istituzioni: fedeltà, («quella che oggi in Italia hanno i tutelati dal sistema, favorevoli a mantenere le cose come sono»), protesta, oppure fuga («queste due invece sono le opzioni di chi vuole cambiare le cose»). I giovani oggi hanno scelto la fuga e gli unici rimasti a protestare nell’Udine di Giacomini «sono i richiedenti asilo». Ma Perché?

«Lasciare l’Italia significa davvero tradire i nostri coetanei e lasciarli soli?»

Le parole di Gabriele suonano pungenti a chi l’Italia l’ha lasciata dopo essere rimasto scottato più e più volte. Dopo aver provato a trovare uno spazio e non esserci riuscito (non è un caso che a partire siano soprattutto i trentenni, dopo anni di stage e prime esperienze professionali). Ma fanno pensare. Troveremo mai casa, radici, pienezza di vita in un paese che non è il nostro? Lasciare l’Italia significa davvero tradire i nostri coetanei e lasciarli soli? Dovremmo forse tornare e rivendicare quel che ci spetta? E se sì, come dovremmo fare? 

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