20 anni di Foo Fighters: la vera vita di Dave Grohl, dopo i Nirvana

20 anni di Foo Fighters: la vera vita di Dave Grohl, dopo i Nirvana

Negli annali della musica la data del 4 luglio 1995 è una data vuota. Eppure, mentre negli Stati Uniti si festeggiava il duecentodiciannovesimo anniversario dell’Indipendenza, in tutto il paese usciva un album di 12 tracce intitolato Foo Fighters, un album che ha alle spalle una storia decisamente strana, praticamente unica, e — a distanza di 20 anni possiamo finalmente dirlo — è il primo mattoncino di una storia fantastica, forse la meno credibile della storia del Rock di tutti i tempi: il successo planetario dei Foo Fighters, una band su cui in pochi avrebbero scommesso, appena vent’anni fa.

Anche la logica ha dei limiti, soprattutto nel Rock. E uno di questi limiti lo ha oltrepassato Dave Grohl inventandosi i Foo Fighters

Si dice che il diavolo si celi nei dettagli. E di dettagli un po’ strani questo album è ricco. A partire dal fatto che, diversamente dalla quasi totalità dei casi di omonimia tra titolo del disco e nome della band, in questo caso è la band che prende il nome dal disco. Non il contrario. Fondare un gruppo prima di registrare un album: più che una stanca consuetudine, sembrerebbe semplice e stringente logica. Sarebbe come iscrivere una squadra di calcio al campionato senza avere i calciatori. Ma anche la logica ha dei limiti, soprattutto nel Rock. E uno di questi limiti lo ha oltrepassato Dave Grohl.

La storia di Foo Fighters mette radici nella prima metà degli anni Novanta, quando, tra il 1990 e il 1994, Dave Grohl prende il posto di Chad Channing alla batteria dei Nirvana

La storia delle dodici tracce che compongono Foo Fighters mette radici nella prima metà degli anni Novanta, ovvero quando, tra il 1990 e il 1994, il ventunenne capellone Dave Grohl prende il posto di Chad Channing, un altro capellone, alla batteria dei Nirvana. Sono all’incirca quelli gli anni in cui Dave inizia a scrivere qualche pezzo per i fatti suoi. Qualcuno lo fa anche sentire ai suoi compari, ma anche se Cobain li apprezza e, in particolare Exhausted e Alone + Easy Target, li vorrebbe arrangiare lui e suonare con i Nirvana, Grohl preferisce tenerseli per sé. Niente male.

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Qualcuno dice che già all’epoca Grohl avesse in mente di usarli per un progetto tutto suo. Se sia vero non importa. Importa solo una cosa: dopo la morte di Kurt Cobain e un periodo estremamente difficile passato ad ascoltare ossessivamente registrazioni dei Nirvana, a sognare Kurt che, ancora vivo, gli rivelava che la sua morte era in realtà solo un grande scherzo, e a meditare di abbandonare completamente la sua carriera musicale, Dave Grohl sia ripartito proprio da quelle canzoni e, con il solo aiuto dell’amico Barrett Jones, in meno di una settimana di studio “solitario e disperatissimo”, ci abbia tirato fuori le dodici tracce che compongono l’album Foo Fighters,un mix di rock, punk, grunge e pop.

È l’ottobre del 1994. Kurt Cobain è morto da poco più di sei mesi e Dave Grohl, la cui più grande paura è quella di essere bollato per sempre come “quello che suonava la batteria nei Nirvana” ha in mano la sua prima copia del demo. Contenuto: quelle 12 tracce di cui prima. Titolo: Foo Fighters, un nome che suona bellicoso e che infatti nasce durante la seconda guerra mondiale, quando veniva usato dai piloti alleati per classificare gli oggetti volanti non identificati che avvistavano nei cieli europei, atlantici e pacifici. Alieni o sconosciute e terrificanti armi nemiche? Nessun rapporto lo aveva mai stabilito. Solo una cosa è certa: erano apparizioni pacifiche, non spararono mai un colpo.

Quel che succede nei giorni seguenti a quella registrazione è una storia che chiunque negli anni Novanta abbia avuto una band con la velleità di registrare conosce bene: la cassetta che contiene le registrazioni viene duplicata — nel caso di Grohl le copie sono circa un centinaio — e distribuita ad amici e conoscenti che bazzicano nel mondo musicale.

Tra di loro ce n’è uno d’eccezione. Si chiama Edward Louis Severson III, e all’epoca è già conosciuto e amato con il nome di Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam. Vedder in quegli anni gestiva un programma pirata in radio, e proprio durante una delle sue trasmissioni, all’inizio del gennaio del 1995, passò un pezzo di quell’album che gli aveva passato l’amico Dave Grohl. Il pezzo era Exhausted, lo stesso che piaceva a Cobain. Anni dopo, ricordando quell’episodio, Grohl rivelò il commento a caldo di Eddie Vedder su quella canzone: «I love this song», disse Vedder, «it makes me want to drive off a cliff’or something». Mi fa venire voglia di buttarmi giù da una rupe. Niente male.

La demo dell’album non piacque solo a Eddie Vedder, anche alla Capitol Records che decise di produrre quelle 12 tracce registrate da un uomo solo in meno di una settimana e farne l’album pubblicato il 4 luglio del 1995. In copertina c’era una foto di Jennifer Youngblood, che in quel momento era la moglie di Grohl. La foto ritraeva una specie di pistola, e in molti pensarono che fosse una mossa di cattivo gusto, visto il suicidio ancora fresco — con un colpo di pistola — di Kurt Cobain. Ma si sbagliavano: quella pistola non è una pistola, è qualcosa di più, è una pistola disintegrante, modello XZ-38, usata da Buck Rogers, un personaggio nato dai romanzi brevi di Philip Francis Nowlan, pubblicati a puntate su una delle tante riviste di weird and fantastic stories degli Stati Uniti di primo novecento, La rivista si chiamava Amazing Stories.

Grohl aveva fatto tutto da solo. Aveva inciso chitarre, basso, batteria e anche la voce, seppur con l’aiuto dell’amico Barrett, ma non voleva certo intraprendere un progetto one-man-band

A quel punto mancava un solo minuscolo dettaglio: la band. Grohl infatti aveva fatto tutto da solo. Aveva inciso chitarre, basso, batteria e anche la voce, seppur con l’aiuto dell’amico Barrett, ma non voleva certo intraprendere un progetto one-man-band. Per risolvere il problema ci mise poco. I Sunny Day Real Estate, una band di Seattle che conosceva, stavano passando un brutto momento a causa dell’improvvisa conversione del frontman, Jeremy Enigk. Fu così che Nate Mendel e William Goldsmith, rispettivamente al basso e alla batteria, coprirono i buchi della sezione ritmica. Alla chitarra, Dave volle Pat Smear, già seconda chitarra di supporto per i Nirvana. Niente male.

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Il resto della storia non è nient’altro che la storia dei Foo Fighters, ovvero una delle più grandi invenzioni di Dave Grohl, la rockstar più lontana dall’essere una rockstar, un musicista di cui tanti ancora faticano a riconoscere la grandezza, tanto che recentemente, in un articolo pubblicato sulla rivista online Prismo, Francesco Farabegoli lo ha definito così:

Il suo più grande merito musicale è stato di suonare la batteria in un gruppo tra i più amati della storia, ma di cui s’era tutti d’accordo che il genio fosse il chitarrista. Scioltasi quella band, ha fondato un altro gruppo ed è semplicemente rimasto a giocherellare con questa o quell’altra cosa, fino a diventare la più grande rockstar della sua epoca. Il tutto senza prendersi mai il disturbo di fare nulla di quello di cui sopra.

Il resto della storia non è nient’altro che la storia dei Foo Fighters, ovvero una delle più grandi invenzioni di Dave Grohl, la rockstar più lontana dall’essere una rockstar

La storia si può leggere quasi sempre in due modi. In questo caso, il primo modo racconta di un uomo fortunato, un outsider che si è sempre trovato al posto giusto nel momento giusto, abile a maneggiare il giocattolo che si è inventato per rivendersi l’esperienza nel gruppo più disruptive degli anni Novanta e, ancora di più, per restare appena sotto la cresta dell’onda per tutto il tempo che serviva per diventare un mito.

Il secondo modo per vedere la storia racconta di un uomo tutto sommato normale, uno di quelli che festeggia i 40 anni in un ristorante con figli e amici. Uno di quelli a cui basta una musica nella scena giusta di un film per scoppiare a piangere, uno di quelli che viene ricoverato per un abuso di caffeina e che, al primo giornalista che lo intervista uscendo dice: «Man, if I get sent to hospital after drinking coffee, imagine what crack cocaine would do to me. I’d have no teeth and I’d be out sucking dicks in a month…», una frase che in italiano suonerebbe così: «Amico, se finisco in ospedale bevendo caffé immagina che effetto mi avrebbe fatto il crack. Sarei rimasto senza denti e, nel giro di un mese, sarei finito a succhiar cazzi ».

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