Libano – Oggi decine di attivisti del movimento libanese “YouStink” hanno fatto irruzione nel ministero dell’Ambiente a Beirut, chiedendo le dimissioni del ministro Mohamed Machnouk. Una crisi che parte da lontano e che, a partire dalle richieste per un miglioramento dei servizi pubblici, si allarga fino a toccare tutta la classe politica del Paese mediorientale. Facciamo un passo indietro.
È lunedì 24 agosto e da 72 ore è battaglia nel centro di Beirut. Giovani, meno giovani, pacifici, rivoluzionari, tutti, senza distinzione, protestano contro il mancato intervento delle autorità governative nella crisi dello smaltimento dei rifiuti. Da oltre un mese a Beirut, infatti, la raccolta della “monnezza” è sospesa, e i libanesi sono letteralmente sepolti da cumuli di spazzatura accatastata lungo i marciapiedi. Si urla all’eliminazione di quell’odore pungente che invade le vie della città, e del fetore della classe politica libanese, oramai ammuffita. È ora di cambiare l’aria, in tutti i sensi.
Da oltre un mese, a Beirut la raccolta dei rifiuti è sospesa
Stesso giorno, Furn el Chebbak, periferia est di Beirut. Tra il borbottio del traffico, marcato da ossessivi colpi di clacson, e lo strepitio dei manifestanti, ribolle il quarto giorno di protesta. Sono le sei di sera e spalla a spalla, cartelli in mano, con lo sguardo fisso, volto al Palazzo di Giustizia, gli “indignados” libanesi scendono in strada per rivendicare i loro diritti.
Da maggio del 2014 il Paese è senza un presidente della Repubblica
Perché la stabilità, già resa precaria dalla difficile convivenza di diciotto confessioni religiose, di cui una decina musulmane e sei cristiane, nel Paese dei Cedri, vacilla giorno dopo giorno. A causa dei veti incrociati dei diversi attori politici, da maggio dello scorso anno, il Libano naviga senza presidente della Repubblica, figura a cui spetterebbe il mantenimento dell’equilibrio nello status di “democrazia confessionale”, sistema per cui le cariche politiche dello Stato vengono assegnate secondo un rigido bilanciamento tra le diverse componenti etnico-religiose.
La mancanza di accordo nell’elezione del capo dello Stato ha approfondito le linee di frattura già preesistenti nella società, e ha rallentato la messa in atto di politiche sociali ed economiche. Con conseguenze tragiche sull’economia del Paese che sta vivendo una fase assai stagnante, dovuta anche agli alti livelli di corruzione.
A rendere ancora più calda la situazione, la vicinanza della guerra siriana. Si stima che sul suolo libanese siano accolti più di un milione di rifugiati siriani, a fronte di una popolazione di circa 5 milioni di abitanti: nel Paese dei Cedri un abitante su tre è siriano. E il rapporto tra comunità ospitante e rifugiati siriani è assai spinoso. Alcuni dei residenti sono ora più poveri dei rifugiati che hanno accolto. Gli affitti e la disoccupazione sono elevati, i salari sono stati decurtati.
Si stima che sul suolo libanese siano accolti più di un milione di rifugiati siriani
La paralisi del sistema politico porta all’esasperazione la tensione sociale. La gente, stanca di masticare, giorno dopo giorno, gli avanzi indigesti lasciati dalla classe politica, si riversa in strada. Nauseata dalla puzza di corruzione, la pancia del popolo, smossa dal movimento spontaneo e trasversale “YouStink” (“tu puzzi”), formatosi partendo dal richiamo social, protesta contro l’incapacità del governo di gestire gli “inquilini” inaffidabili della città: energia, acqua, spazzatura, disoccupazione.
Perché a Beirut, quando meno te lo aspetti, la luce se ne va. Ritorna, giusto il tempo di una sigaretta, ti illude, e poi, ancora, se ne va. A Beirut, l’unica certezza che hai, sono i regolari black-out. Per le vie, nei negozi, in casa. Perché a Beirut non hai diritto ad una continua erogazione di elettricità. E nemmeno ad usufruire dell’acqua potabile. A Beirut non hai scelta, sei costretto a convivere con queste regolari incognite. A Beirut, in qualsiasi zona ti trovi, non puoi non notare che le strade, a causa della chiusura della discarica Naameh, dove confluisce tutta la “monnezza”, sono ricoperte da cumuli di rifiuti. Non puoi non sentire l’odore acre che invade le vie della città.
A Beirut si cammina spediti, poi si rallenta; con un piede cerchi spazio tra i sacchetti neri d’immondizia, con l’altro aspetti. Con il muso tra umido e plastica, intanto, qualche gatto randagio cerca del cibo. Ti fissa, miagola e poi toglie il disturbo. E, mentre lui, sedotto dal lezzo, si diletta tra la sporcizia, tu non puoi non rimanere disgustato da tutto questo lerciume.
Per questo i manifestanti, bandane al collo, megafono in mano, a turno, urlano alla “Rivoluzione”. Tra cori e slogan, marciano sulla vecchia “Linea Verde”, strada di demarcazione, durante la guerra civile, tra la parte orientale della città, cristiana, e quella occidentale, musulmana, quasi a dimostrare che sotto l’apparente calma covano sempre delle ceneri pericolose pronte a riaccendersi. I manifestanti, sorvegliati a vista dai militari, faccia dura e mitra in mano, pretendono le dimissioni del governo. E chiedono, a gran voce, un cambio radicale. Hanno raggiunto il limite: «Stiamo stanchi di assistere ogni giorno all’inefficienza del servizio pubblico. L’immondizia è dappertutto, l’odore è insopportabile, nessuno si muove per risolvere il problema». Attaccano il potere: «Il governo è corrotto, i politici sono dei ladri». Perché gli inquilini del Palazzo, per loro, «sono solo spazzatura». Reagiscono così, determinati, in massa, a passo veloce lungo Damascus Road, tra chiese, moschee, palazzi in costruzione e vecchie case diroccate, contro l’instabilità del Paese.
Joey Ayoub, leader del movimento “YouStink”, informa con un tweet il popolo virtuale che il sit-in terminerà solo alla «caduta del governo criminale» rendendo possibile, così, nuove elezioni politiche. I manifestanti, inoltre, chiedono specificatamente le dimissioni del ministro dell’Ambiente, Mohamed Machnouk, e del ministro dell’Interno, Nouhad Machnouk.
Intanto, il corteo, dopo quattro ore di marcia, si ferma in Piazza dei Martiri, davanti al Parlamento. Seduti a terra, gambe incrociate, cartelli ancora in mano, con la moschea alle spalle, i manifestanti forse ripensano agli scontri della notte scorsa, dove la tensione è degenerata in violenza e per ore manifestanti e polizia si sono fronteggiati con lanci di bottiglie incendiarie da una parte e cariche, lacrimogeni e colpi di pistola sparati in aria dall’altra. Al termine della rivolta le forze di sicurezza interna libanesi e la polizia hanno reso noto di aver arrestato 32 persone. Un morto e 402 feriti, il bilancio parziale. È notte ormai e il caldo torrido esalta l’odore polveroso del cemento. Si cercano e si danno appuntamento a domani. La giornata è finita, la loro protesta, invece, no.
Continua il giorno dopo, e quello dopo ancora. Con tono sicuro, ma pacato. Di nuovo duro e intenso nella giornata di sabato. Di nuovo pomeriggio, di nuovo per le strade di Beirut, di nuovo loro, bandiere in mano, con in bocca la voce della protesta. Arrabbiati, lanciano pietre contro gli agenti in tenuta antisommossa a presidio della zona. Nessuna reazione. Loro, viso coperto, casco e scudo in mano, cercano di evitare lo scontro fisico. In riga, accanto alla moschea, in Piazza dei Martiri, restano immobili. È passata da poco la mezzanotte, e sono ancora lì, fermi. I manifestanti, invece, tra slogan e canzoni popolari, lanciano un ultimatum: se il governo non si dimette, oggi scenderanno nuovamente in piazza. La “resistenza” continua.