LONDRA. Andrea ha 28 anni, è ungherese e si è trasferita a Londra due anni fa. Ha iniziato facendo le pulizie negli hotel, poi ha trovato lavoro in un bar di Crouch End, su a Nord, quello in cui lavora tutt’ora. È lì da quasi due anni ormai e ne è l’anima. Decide cosa preparare per il banco delle insalate, tiene a mente cosa manca e prepara gli ordini per i fornitori, controlla che le procedure di sicurezza siano rispettate, aggiornando quotidianamente i registri con le temperature di frigo, freezer e tutto il resto. La responsabile del bar, slovena, le ha aumentato lo stipendio di 50 centesimi rispetto al minimum wage di 6,5 sterline solo dopo che i clienti le hanno fatto notare quanto lavorasse duro e quanto fosse brava.
Alice (il nome è di fantasia per privacy) è italiana, lavora in uno dei punti vendita londinesi di Whittard, la catena che vende the, caffè e cioccolata di alta qualità. È partita con un lavoro part-time, è passata al full-time dopo pochi mesi, e ora, a distanza di nove, è supervisor del principale punto vendita di Londra. Non è il lavoro per cui ha raggiunto l’Inghilterra, ma l’idea di crescere e fare carriera in una grande catena non le dispiace. Anche la sua capa è straniera. Non è difficile trovare immigrati tra chi gestisce i punti vendita di Whittard, racconta.
Londra si nutre di lavoratori stranieri e ne ha costantemente bisogno
Basta metter un piede a Londra per accorgersi che il settore commerciale di questa città è popolato di stranieri. Spesso sono cittadini europei. Spesso lavorano al minimum wage, ma poi crescono internamente, diventano supervisor, manager, responsabili di settore. Insieme ai lavoratori qualificati che l’Inghilterra assorbe nel suo sistema sanitario, nelle aziende tecnologiche, negli studi di progettazione architettonica, nella finanza e nel marketing, per citarne solo alcuni, anche i lavoratori meno qualificati contribuiscono a far crescere l’economia e il Pil inglese. Lo dimostrano le ricerche pubblicate sul tema (ne avevamo parlato tempo fa in questo articolo). Londra si nutre di lavoratori stranieri e ne ha costantemente bisogno.
Eppure succede che il ministro degli Interni britannico Theresa May intervenga sulle colonne del Sunday Times dicendo di voler espellere tutti gli immigrati comunitari che non siano in possesso di un lavoro. Chiede, più precisamente, una revisione dei trattati di Schengen, marcando la differenza tra «il diritto di spostarsi per lavorare», quello riconosciuto secondo lei da Schengen, e quello di spostarsi per «cercare lavoro o usufruire dei benefit statali», da non dare, dice, per scontato. Accade poi che i media riprendano la notizia e la amplificano quasi a tal punto da generare ansia e panico tra chi si trova all’estero e tra chi pensa di espatriare.
Impotente di fronte alla crisi di Calais, il governo Cameron ha bisogno di mostrare i muscoli
Per questo, mentre si legge di Theresa May, ci sono alcune cose del Regno Unito che vanno tenute in mente. Per ridimensionare le parole del Ministro e prevedere le giuste conseguenze bisogna guardare a quel che accade oltre Manica in questa fine d’estate 2015.
La crisi di Calais e il governo impotente
Da qualche mese ormai la Gran Bretagna sta affrontando la “crisi di Calais”: immigrati e rifugiati extra-europei tentano costantemente di attraversare il tunnel della Manica per entrare nel Regno Unito. I giornali britannici hanno riempito per tutta estate le pagine di articoli sui migranti e sui disagi creati a turisti, commercianti, autotrasportatori e all’area che circonda l’imbocco del canale della Manica, messa a dura prova dalle lunghe code di auto e dall’arrivo soprattutto di minorenni bisognosi di aiuti immediati. Per quanto Cameron sia arrivato ad annunciare (e attuare) l’invio di cani per supportare gli agenti schierati accanto ai colleghi francesi, e la May abbia addirittura valutato l’idea di mandare forze speciali a dissuadere i migranti dal credere che l’Inghilterra offra benessere e vita facile, la sensazione generale è che quella di Calais sia una crisi destinata a durare a lungo, difficile da gestire e da porre a termine. Il governo, che appare debole e impotente di fronte a tutto questo, deve mostrare i muscoli, su un tema, quello dell’immigrazione che è stato centrale in campagna elettorale. Non è un caso che la May abbia creato nella sua lettera al Sunday Timesun diretto e tiratissimo riferimento alla crisi dei migranti extraeuropei, dando la colpa delle stragi del Mediterraneo all’assenza di confini in Europa. Il nesso non è chiaro, ma tant’è.
I nuovi dati dell’Ufficio di statistica sull’immigrazione
Seconda cosa. Il 27 marzo, tre giorni prima dell’intervento di Theresa May, l’ufficio statistico nazionale ha rilasciato i dati ufficiali relativi all’immigrazione netta nel Regno Unito tra marzo 2014 e marzo 2015 (immigrati meno emigrati). I numeri degli ingressi sono tre volte superiori.
«L’elettorato di provincia vede allungarsi giorno dopo giorno la coda dal medico per via dei nuovi arrivati»
Di fronte a questi dati, il professor Iain Begg, docente allo European Institute della London School of Economics, propone di adottare un’ottica locale. Perché non è a Londra che probabilmente vive l’elettorato target del governo Cameron, quello a cui è stato proposto il taglio netto in numero di immigrati. Dimentichiamoci della capitale per un attimo, eterogenea da tempo, e fingiamo di essere in provincia, come potrebbe essere quella di Cambridge, in cui il professore vive. «Quando i migranti si spostano, lo fanno in gruppi, e creano delle comunità in piccole cittadine del Regno Unito. È qui che vive chi dà ascolto ai discorsi di Theresa May. Ed è qui che ti rendi conto che «la coda dal medico si sta allungando giorno dopo giorno per via dei nuovi che continuano ad arrivare. Quelli appunto, riportati dalle statistiche. Non serve a nulla spiegare a questi inglesi che gli stranieri davanti a loro in coda all’ufficio postale in realtà stanno facendo crescere il Pil inglese», e che, aggiungiamo noi, i sussidi che ricevono dallo stato sono inferiori rispetto al valore economico prodotto.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Il tour agostano di Cameron in Europa
Punto numero tre. David Cameron è di nuovo in viaggio per l’Europa. Dopo la vittoria alle elezioni dello scorso maggio, il premier ha compiuto a giugno un primo viaggio in Europa. Ha incontrato i colleghi per valutare con loro la possibilità di modificare alcune regole europee, restituendo più libertà all’Inghilterra anche in materia di immigrazione. Il 18 agosto, una decina di giorni fa, ha annunciato un secondo identico tour, che lo impegnerà per alcune settimane. Nelle negoziazioni che andrà facendo, un punto importa al premier britannico: poter togliere i benefit statali ai migranti europei che nel Regno Unito non hanno un lavoro. È questo l’obiettivo ultimo del governo, e forse, ipotizza il professor Iain Begg, «il premier ha scelto di far fare a Theresa May la parte dell’estremista per raccogliere consenso tra l’elettorato più conservatore. Mentre lui si ritaglia la parte del moderato trattando con Hollande e Angela Merkel. Fa tutto parte del processo di negoziazione in corso», spiega il professore, «è pura politica interna».
«Il premier ha scelto di far fare alla May la parte dell’estremista, mentre lui si ritaglia il ruolo del moderato mentre tratta in Europa con Hollande e Merkel»
Ricordiamo anche che sulla testa del premier pende la spada di Damocle del referendum sull’uscita dall’Unione del 2017. Cameron, che pure lo ha promesso in campagna elettorale, non vuole assolutamente l’uscita dall’Unione, ma per potersi schierare per un sì a rimanere in Europa, dovrà presentare agli elettori le conquiste fatte in questi mesi tra i colleghi Ue. Per poter tornare a casa dicendo qualcosa come: «Ho ottenuto queste concessioni, ora possiamo rimanere». E i benefit agli immigrati sono un elemento chiave.
Questioni di politica interna.
Infine, quattro, questioni di politica interna. Theresa May sarà probabilmente una dei candidati a succedere David Cameron al prossimo giro elettorale e l’immigrazione europea, spiega Begg, «è uno dei suoi cavalli di battaglia». Per questo non si lascia scappare occasione per alzare i toni sull’argomento.
Cosa può davvero fare il governo britannico per espellere i migranti europei
Ma cosa può davvero fare il governo britannico in tutto questo? Non potrà certo impedire a cittadini europei di venire a cercare un lavoro in Inghilterra. Angela Merkel su questo punto è stata ferma fin da subito. La libera circolazione non si tocca. Quello che Cameron cercherà di fare è, spiega Iain Begg, introdurre una norma condivisa in tutta l’Unione per cui i sussidi statali non si assegnano a chi viene da fuori e non ha ancora un lavoro. «Cosa del resto comprensibile, ma per realizzare la quale servirà il consenso di tutti i paesi membri», chiude il professore.