Viva la FifaIl Mondiale di rugby è l’unico che può tenere testa a quello di calcio

Il Mondiale di rugby è l'unico che può tenere testa a quello di calcio

Per gli inglesi, è sempre e comunque una questione di tradizione, di maestria. Quando ospitarono gli Europei di calcio nel 1996, coniarono lo slogan Football comes home. Poi persero il torneo in favore dei tedeschi, un’onta incancellabile tanto quanto vennero sconfitti dagli Usa, alla prima partecipazione al Mondiale risalente agli Cinquanta: prima nulla, siamo i maestri, mica ci mischiamo. Ora fanno lo stesso con un altro Mondiale, quello di rugby, secondo solo a quello del pallone che può essere preso a calci con i piedi come evento globale: Too big to miss, troppo importante da mancare, l’appuntamento con la coppa Webb Ellis cominciata il 18 settembre.

In ogni caso, l’approccio british è sempre lo stesso: quando organizziamo il torneo, siamo gli inventori dello sport e non sbagliamo. Ai maestri bisogna concedere la nascita di entrambi gli sport. La cui storiografia mischia racconto e realtà. Si racconta che sia stato uno studente dell’Accademia di Rugby a inventarlo: un giorno, William Webb Ellis prese la palla con le mani mentre tutti usavano i piedi e la portò con sé fino a bordocampo gridando “Meta!”. Si è spesso raccontato che i due sport si siano divisi ufficialmente una sera, in un pub immerso nella bruma britannica e in ogni storia che si rispetti, sul rugby soprattutto, piatti irrorati di birre ricorreranno spesso. Al tavolo c’erano i rappresentanti del football e del rugby: gli uni volevano usare anche le mani, gli altri ammettevano solo i piedi. Non si trova l’accordo, quindi la scissione. Ma la questione è molto più lunga nel tempo e vede da una parte uno sport come il calcio subito d’accordo su regole e costumi, dall’altra il rugby che fatica a trovare unità di intenti e di classi.

Il football diventa strumento per tutti gli strati della società, fin da subito. Anche in Italia, dove il primo club fondato, il Genoa, fu sì di matrice inglese, ma divenne subito sport popolare, di massa. Così come il Milan, squadra della Milano operaia. E l’appartenenza di un club ad una classe sociale piuttosto che ad un’altra (si pensi a River-Boca) è negli anni diventata più la base di una rivalità che negli anni si è sbiadita per diventare “odio” puro. Il rugby, pur essendo una buona occasione per tenere fuori dal centro cittadino un buon numero di energumeni, come ebbe a dire un tale una volta, si è spesso distinto per il suo carattere elitario.

Tanto che, sulla disputa tra classi si è avuta lo scisma tra il rugby a tredici e quello a quindici. Il primo era della zona nord dell’Inghilterra, giocato dalla working class che non poteva giocare più di tanto per colpa del lavoro. Nel sud del Paese si giocava invece tra classi agiate. Il filo comune era uno: il dilettantismo. Ma alcune squadre cominciano a scucire soldi per ricompensare tutti quei giocatori che si assentano dal lavoro. Un orrore, per l’elite che difende il dilettantismo. Così i club del nord decidono per la scissione: si ritrovano in un hotel di Huddersfield e fondano la Northern Rugby Football Union, diventata poi Rugby Football League ma con regole diverse dal rugby che vediamo sfidarsi al Mondiale.

Il professionismo sarà comunque nel destino della palla ovale. Ma bisognerà aspettare diversi decenni. Così, mentre il pallone che si calcia solo con i piedi si mantiene popolare e si espande a macchia d’olio, il rugby ha una penetrazione diversa. Molti vengono attratti dal rugby a 13, quello della Northern, che nel tempo arriverà a offrire contratti anche importanti, diffondendosi tra Francia, Australia e Nuova Zelanda. Il rugby union, quello a 15, si chiama così perché legato al Rugby Football Union, nato – guardacaso – in un posto dove si mangia  e si beve, il Pall Mall di Londra, nel 1871. Il tutto viene disciplinato dall’International Rugby Board, fondato da Scozia, Galles e Irlanda: l’Inghilterra si unisce poco dopo, non subito: sono i maestri, Oh God. Decide di farlo nel 1890, ma con uno sprazzo d’orgoglio si concede un’invenzione che è la massima espressione dell’elitarismo. In un hotel di Bradford nasce il club dei Barbarians. Una squadra che non ha nessun tesserato: si entra ad invito e si gira a sfidare il mondi del rugby. Un circolo esclusivo, dove si indossa tutti la stessa divisa, ma i calzettoni restano quelli del club di appartenenza.

Ne faranno parte molti italiani. Il primo sarà Stefano Bettarello nel 1952, ma negli anni più recenti ci saranno i più grandi della Nazionale: dal barone Lo Cicero a Sergio Parisse, da Martin Castrogiovanni a Mauro Bergamasco. Ma il carattere elitario del rugby non poteva durare per sempre. Mentre il calcio organizza il mondiale già nel 1930, il rugby è già uscito dal programma olimpico. Dopo la prima guerra mondiale si giocherà la King’s Cup voluta da Re Giorgio V. In molti lo considerano il primo mondiale: ci sono Inghilterra, Francia, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda e una selezione internazionale scelta dalla Raf. Segno che la palla ovale, bene o male, ha già dei Paesi punti di riferimento. Ma nulla, fino agli anni Ottanta. Si resta fossilizzati su Cinque Nazioni e Tri Nations (diventato poi Rugby Championship), emisfero boreale contro quello australe.

Nel 1985, la frattura tra il rugby XIII e XV è sempre legata alla questione del professionismo, con molti giocatori che preferiscono andare To North, come si dice quando abbracci il rugby XIII. Un fenomeno che stava coinvolgendo l’emisfero australe. Rupert Murdoch, che è australiano e il rugby sa quindi cos’è, pensa a un torneo professionistico per il XV, fuori dal circuito dell’International Rugby Board. Che non ci sta e anticipa Murdoch, fondando la coppa del mondo e affidandone due anni dopo l’organizzazione ad Australia e Nuova Zelanda. Vincono proprio gli All Black, che alla prima partita mostrano all’Italia come si fa, con John Kirwan che fa una meta dribblando anche i massaggiatori a bordocampo.

 https://www.youtube.com/embed/SL8WX7a-H2k/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Ma per la storia della palla ovale, il vero turning point è il 1995. Ovvero l’anno in cui il rugby sceglie il professionismo in maniera ufficiale. Lo stesso in cui Nelson Mandela consegna la Webb Ellis Cup a François Pienaar. Per la generazione politicamente impegnata degli anni Ottanta, Mandela era già un mito. Ora lo è un Paese intero, che dopo la caduta dell’apartheid si trova unita a tifare per gli Sringboks, nazionale simbolo degli Afrikaner e per questo vista male dai neri. Una nazionale che vince, mettendo il rugby sotto una luce positiva per tutti: contatto fisico, rispetto, orgoglio. Con il professionismo, è la ricetta magica per gli sponsor, che vedono nella palla ovale la nuova miniera d’oro. Di soldi e di immagine.

Certo, il calcio resta imbattibile e imbattuto. Ma il rugby è oggi l’unico evento mondiale a tenergli testa. Prima di tutto, lo dice l’immagine che il calcio si è costruito attorno a sé, con un capo mondiale come Sepp Blatter affogato dalle inchieste e un segretario generale della Fifa di recente accusato di aver fatto soldi con la vendita sovraprezzo di alcuni biglietti per Brasile 2014. Avrebbe fatto il bagarini, capito? Il Rugby mantiene ancora quel carattere misto fatto di attaccamento alla tradizione elitaria e orgoglio, come quello dei gallesi che usciti dalle miniere giocavano a rugby e non vedevano l’ora di affrontare gli inglesi, che quel ferro glielo avevano depredato.

E poi ci sono i numeri. Secondo stime recenti, la Webb Ellis Cup che si disputa in Inghilterra è a livello di spettatori il quinto evento mondiale di sempre per numero di spettatori: davanti a sé ha gli ultimi cinque mondiali di calcio, dal 2002 al 2014.  Ma l’Inghilterra punta tanto su un evento che potrebbe portare 1 miliardo di sterline al pil nazionale, per un giro d’affari di 2,4 miliardi. Sono stati investiti 85 milioni solo per le infrastrutture, si giocherà a Wembley, a Twickenham, a Elland Road. I grand brand vogliono esserci, ci saranno: solo la Adidas versa 15 milioni euro all’anno per le sacre casacche degli All Black, che per regolamento (come tutte) sono senza sponsor, ma chissà ancora per quanto. Under Armour è sbracata in riva al Tamigi con un mega evento e alcuni rugbisti di grido come uomini immagine. E Jonah Lomu, che un tempo guidava l’Haka in campo, oggi la esegue a Covent Garden per un grande produttore mondiale di carte di credito. Certo, sarà il Mondiale più caro di sempre: 104 sterline a biglietto in media. Ma si sa, vedere i maestri all’opera ha il suo prezzo.

X