«African food! African food!». Lo urlano più volte al giorno quando si mettono a cucinare. È una delle poche attività che possono svolgere. Sono un gruppo di otto migranti che da settimane, alcuni da mesi, vivono in Veneto. Sette vengono dal Gambia, uno soltanto dalla Guinea Conakry – quella che noi europei chiamiamo Repubblica di Guinea. Stanno aspettando di poter esporre la propria storia davanti alla commissione territoriale congiunta formata da Prefettura, Comune, Questura e Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, che deve valutare la loro domanda di asilo.
Abitano dentro un appartamento al secondo piano di un palazzo centrale di Rovigo. Hanno paura di prendere l’ascensore perché più di una vota sono rimasti bloccati all’interno. Gli edifici adiacenti ospitano famiglie cinesi, un african shop e diversi studi legali.
Sono a carico di un’associazione che si chiama Di tutti i colori, con sede a Occhiobello, un piccolo comune al confine fra Emilia e Veneto, tra le provincie di Rovigo e Ferrara. L’associazione è nata nel 2005 e dal 2011 lavora con i richiedenti asilo dentro appartamenti privati. Paga un canone d’affitto ai proprietari e poi partecipa ai bandi che la Prefettura indice per affidare i migranti sul territorio.
Un gruppo di otto richiedenti asilo nel centro di Rovigo. Vengono dal Gambia, vanno fieri del cibo africano che cucinano, studiano l’italiano e aspettano i documenti
Al martedì e al giovedì gli otto ragazzi frequentano i corsi d’italiano, durante la giornata alcuni di loro studiano su un manuale molto elementare di grammatica, in cui imparano a leggere frasi semplici e coniugare i verbi essere e avere. Per il resto della settimana non possono fare praticamente nulla: è questo il loro vero dramma.
«Possiamo solo camminare, mangiare e dormire» dice Musa, uno dei ragazzi del Gambia. Le sue frasi ricordano quelle che si sono sentite fuori dal campo profughi di Bresso, alle porte di Milano, quando tre settimane fa è scoppiata la rivolta in un centro gestito dalla Croce Rossa.
Musa è arrivato da meno di un mese in Italia, dopo un viaggio interminabile e quasi un anno di prigione in Libia. Dice di essere nato nel 1988 ma sembra molto più grande. Mostra le dita dei piedi fratturate che non riesce più a piegare e alcuni lividi sulla schiena. Racconta che quelli sono i segni delle torture subite in Libia: le martellate sui piedi erano le preferite dai suoi carcerieri. «Mi torturavano perché dicevano che ero troppo nero e troppo alto».
Non si capisce cosa intende quando dice che «i libici hanno la faccia come leoni», ma dopo qualche minuto viene fuori che nella città di Misurata dove è stato imprigionato, i miliziani si fanno chiamare ‘‘i Leoni’’ e hanno quel simbolo sulle loro divise. Altri stendardi dei gruppi armati che Musa ha incontrato durante il viaggio dal Gambia al Mediterraneo sono quelli dello ‘‘Scorpione’’ e le ‘‘Due pistole incrociate’’. «Ogni gruppo di miliziani chiede soldi per farti passare, ed è meglio pagare piuttosto che tornare a piedi indietro nel deserto».
Musa è un ragazzo che dice di avere 27 anni. In Libia è stato incarcerato e torturato per un anno a Misurata. «I libici hanno la faccia come leoni», dice lui, ma si riferisce al simbolo sulle divise dei miliziani
Al mattino ci accompagnano al supermercato: comprano solo uova, pane in cassetta, un pacco di biscotti e una cassa d’acqua – anche se le operatrici dell’associazione Di tutti i colori hanno insegnato loro a bere solo quella del rubinetto. Forse non ci fanno caso, ma sono gli unici clienti guardati con sospetto dai dipendenti del supermercato.
Alle 13 preparano il primo pasto: il pane viene immerso nelle uova. Per loro queste sono omelette. Alle 16 si mettono di nuovo in cucina, noncuranti dell’orario, e preparano un enorme pentola di riso, spezie piccanti e cosce di pollo gridando, come detto, «African food».
Si siedono a mangiare per terra, tirano fuori una mappa stilizzata dell’Africa e usano i quadrati delle mattonelle sul pavimento per descrivere il loro Paese di origine. La mattonella centrale è la capitale del Gambia, Banjul. Loro raccontano di provenire da Serekunda, una città più a sud raggiungibile con un autobus. Era un piccolo villaggio che poi è cresciuto di popolazione nei decenni, perché tutte le persone che lavorano nella capitale si sono trasferite lì per vivere. Attorno si sono moltiplicati i quartieri, ma le famiglie dei sette ragazzi sono originarie del vecchio nucleo centrale del villaggio. Sembrano andare molto fieri di questo fatto.
Musa mostra anche il suo profilo Facebook dove si vede che per passione faceva il dj di musica africana: «Per pagarmi parte del viaggio ho venduto il lap-top con tutta la mia musica – e scherza – se andate in Gambia dite il mio nome, mi conoscono in molti». A casa ha lasciato una moglie e tre figli piccoli di cui mostra le foto. Chiede se il fatto di essere sposato con figli può aiutarlo davanti alla commissione per ottenere i documenti e cominciare a lavorare.
Sono cresciuti nella città di Serekunda, a sud della capitale, Benjul. A casa hanno mogli e figli, uno di loro lavorava come dj di musica africana
Alla sera ci accompagnano in stazione a Rovigo, si offrono di portare la valigia e stanno in coda mentre acquistiamo i biglietti del treno. Non si capisce se lo facciano per generosità o forse nella speranza di ottenere qualcosa in cambio. Ma anche in questa situazione sono gli unici ‘‘viaggiatori’’ a finire al centro dell’attenzione del personale di Trenitalia, che chiede loro cosa ci facciano in coda e dove siano diretti. Risposta: da nessuna parte.
In Veneto l’accoglienza per i richiedenti asilo è diversa rispetto a quanto avviene in altre regioni del nord: ci sono poche strutture mastodontiche che ospitano un centinaio di persone alla volta, una per esempio a Padova. Per il resto si tratta piuttosto di accoglienza diffusa, capillare. Piccoli gruppi di richiedenti asilo in piccole strutture. Questo impedisce l’esplodere di problemi sanitari o alimentari, ma è economicamente più oneroso per le associazioni e le cooperative che lavorano nel settore. Sui 34 euro giornalieri che l’associazione Di tutti i colori riceve per ogni accoglienza, ne escono esattamente 34, fra costi per l’affitto e sopratutto il personale: un operatore – quasi tutte donne – per ogni dieci profughi accolti. Le cooperative più grandi, che vogliono risparmiare, spesso alzano questo rapporto: anche un operatore ogni cinquanta profughi. I ragazzi africani dispongono di un pocket money da 2.50 euro al giorno e poi vengono accompagnati dagli operatori, una volta a settimana, a comprare i viveri per la casa. Questo serve a impedire che sperperino i soldi in maniera dissennata.
In Veneto l’accoglienza è diversa: capillare, diffusa sul territorio. Piccoli gruppi in piccole strutture. Così si eliminano i rischi sanitari ma i costi sono più elevati
Nella provincia di Rovigo è stata un’estate tesa sotto il profilo dei migranti: l’associazione Di tutti colori, assieme ad altre cooperative, stava partecipando a un nuovo bando della Prefettura. Tra le varie strutture individuate per i richiedenti asilo ne era stata selezionata nel comune di Frassinelle Polesine. Una struttura inizialmente costruita per ospitare i dirigenti e i manager dell’Ikea con le loro famiglie. Poi l’Ikea non è mai stato costruito e il palazzo è rimasto vuoto.
La notizia del bando della Prefettura si è diffusa ed è cominciata una martellante campagna della stampa locale . Per settimane si è parlato di oltre cento profughi che avrebbero invaso Frassinelle. In realtà le accoglienze in gioco non sarebbero state più di settanta e parrebbe che le associazioni stessero addirittura trattando per un numero inferiore.
Militanti di Forza Nuova e un Comitato spontaneo di cittadini hanno organizzato una serie di presidi, sia davanti agli appartamenti che davanti alla Prefettura di Rovigo. In piazza sono scese circa 300 persone, che per un Comune di 1.400 abitanti è una cifra alta.
Fra il 3 e il 4 agosto un altro palazzo vuoto, accanto a quello che avrebbe dovuto ospitare i profughi, è stato attaccato in un raid notturno, riportando danni per 50mila euro . È partita una denuncia contro ignoti, e i responsabili non sono ancora stati individuati. La graduatoria definitiva del bando non è ancora uscita e le varie realtà che hanno partecipato sono in attesa di una decisione. Sembrebbe che la Prefettura abbia deciso di congelare il bando per raffreddare il clima di tensione. Come molte altre Prefetture del Veneto sono state predisposte le revoche dell’accoglienza per tutti i richiedenti asilo che, dopo la risposta negativa della commissione di Padova, avevano presentato ricorso davanti a un giudice ed erano in possesso di un permesso di soggiorno temporaneo della durata di sei mesi. Permesso non valido per l’espatrio ma valido per carcare lavoro.
Ad agosto sono scesi in piazza i militanti di Forza Nuova contro le nuove accoglienze. Il palazzo destinato ai profughi è stato attaccato. E la prefettura ha dato 72 ore ad alcune associazioni, probabilmente per liberare spazi in vista dei nuovi arrivi
Francesca De Luca è una ragazza di ventisette anni che ricopre il ruolo di Presidente dell’associazione Di tutti i colori. Nei primi di agosto era a Ventimiglia con una collega, partite come volontarie per aiutare nel campo profughi autogestito che da mesi sopravvive al confine italo-francese. Mentre si trovava a Ventimiglia le è stata comunicata la notizia delle revoche dell’accoglienza: sono state date 72 ore di tempo per lasciare le strutture, prima a un gruppo di otto ragazzi nigeriani e nelle settimane successive ad altri cinque. Molti di questi sono finiti per strada.
Adesso Francesca De Luca e la sua associazione stanno tentando una nuova via, che possa essere un’alternativa a questi metodi che spesso portano i migranti per strada: si tratta dell’accoglienza nelle famiglie, sia su base volontaria sia dietro un minimo compenso economico.
È un’ipotesi sperimentata in altre zone d’Italia, con delle criticità – per esempio bisogna evitare di mandare in famiglia chi è arrivato da poco tempo. Ipotesi che recentemente è stata fatta anche a Milano proprio dalle istituzioni: l’assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, ha chiesto ai milanesi di inviare al Comune la loro disponibilità ad ospitare sia profughi che sfrattati in condizioni di emergenza, per creare un albo comunale dell’accoglienza.