A pochi sarà sfuggita la notizia di qualche giorno fa, a proposito di uno studio scientifico pubblicato sulla rivista Nature, secondo cui l’Alzheimer potrebbe essere contagioso. Soprattutto nel Regno Unito, dove i media hanno subito dato ampio spazio alla notizia, scatenando una sorta di panico. Se da una parte, però, la reazione della stampa britannica è stata forse un po’ eccessiva ed enfatizzata, dall’altra c’è da dire che la rivista che ha pubblicato la ricerca è una delle più importanti del settore, e che lo studio apre nuove prospettive di indagine. Non è certo la prima volta poi che si ipotizza il fatto che malattie neurodegenerative come l’Alzheimer o il Parkinson abbiano un’origine infettiva.
Circa una settimana fa quindi Independent, Guardian, Telegraph e Daily Mail, per citarne solo alcuni, aprivano su per giù tutti allo stesso modo con titoli come: “L’Alzheimer è contagioso”. Sottolineando poi come la malattia potesse essere contratta con procedure mediche, come le trasfusione del sangue, ma anche semplicemente andando dal dentista, attraverso i ferri chirurgici contaminati. Insomma, una versione un po’ semplificata dell’ipotesi portata avanti dai ricercatori dell’University College di Londra.
Il gruppo di ricerca, guidato da John Collinge, aveva in realtà studiato i cervelli di otto persone giovani, morte a causa della malattia di Creutzfeldt-Jakob – una patologia neurodegenerativa rara, che conduce a una forma di demenza progressiva e fatale e conosciuta più per la sua forma variante, ancor più rara, l’encefalopatia spongiforme bovina, (o BSE, Bovine Spongiform Encephalopathy) anche nota negli anni ’90 come “morbo della mucca pazza”. Persone infettate dopo un trattamento con ormone della crescita contaminato da prioni.
All’interno dei cervelli di queste persone si trovavano tracce della proteina beta-amiloide, correlata all’Alzheimer, senza che nessuno di loro avesse alterazioni dei geni che si associano all’Alzheimer
I ricercatori quindi si sono accorti che oltre ai prioni, all’interno dei cervelli di queste persone si trovavano anche tracce della proteina beta-amiloide, correlata all’Alzheimer, senza che nessuno di loro avesse alterazioni dei geni che si associano all’Alzheimer. Da qui l’ipotesi dei ricercatori per cui l’Alzheimer potesse avere una componente infettiva, attraverso i prioni, e si potesse trasmettere attraverso i ferri contaminati o le pratiche chirurgiche. Il lavoro è stato quindi inviato a Nature, che alla fine lo pubblica solo dopo un’attenta valutazione, mentre i revisori chiedono agli autori del lavoro di scrivere esplicitamente nelle conclusioni «non c’è alcuna evidenza che la malattia di Alzheimer sia contagiosa e che ci si possa ammalare con le trasfusioni o con strumenti chirurgici contaminati», come scrive Giuseppe Remuzzi su Corriere.it.
Gli interrogativi aperti dai ricercatori sono diversi e se per alcuni versi l’ipotesi lascia dei dubbi, dall’altra rappresenta una nuova e interessante pista per comprendere meglio la malattia. «La cautela è massima e lo studio britannico più che dare delle risposte apre molte domande», spiega Giancarlo Comi, direttore del Dipartimento neurologico e dell’Istituto di neurologia sperimentale (Inspe) dell’Irccs San Raffaele di Milano. «Si tratta di una pista interessante, che apre un punto di vista diverso e non del tutto sorprendente, ma da prendere con estrema cautela. Siamo in una situazione assolutamente preliminare, e ora mi aspetto studi con elementi più solidi e che facciano eventualmente emergere elementi di conferma».
«In questo caso non parliamo di virus o batteri ma di prioni» spiega a Linkiesta Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano. «In ogni caso, oggi abbiamo già prove della complessità degli organismi e che l’interazione con l’ambiente esterno possa favorire l’insorgere di patologie. Ne sono un esempio il papilloma virus, che causa il tumore del collo dell’utero, il virus dell’epatite B, fattore di rischio per il tumore del fegato, più tutta una serie di lentivirus e altri virus che causano una degenerazione rispetto a un’infezione cronica. Lo spunto che offre questo studio è più ampio: mostra come noi non siamo fatti solo dai nostri singoli “pezzi”, ma siamo in relazione con un ambiente esterno e con agenti che possono in qualche modo interferire o rappresentare dei fattori di rischio».
Non è comunque la prima volta che nel mondo scientifico viene battuta una strada simile. Qualche anno fa il premio Nobel Luc Montaigner aveva ipotizzato che «malattie come Parkinson, Alzheimer e autismo potrebbero avere un’origine infettiva». In base ai suoi studi sul Dna, Montagnier aveva ipotizzato che lo stress ossidativo fosse alla base di malattie simili, ma anche dei tumori. Non si parlava quindi delle classiche infezioni “calde” associate a stati febbrili, ma “fredde”, dovute cioè allo stress ossidativo.
L’idea di Montagnier sembra però basarsi su una teoria molto dibattuta nel mondo scientifico, quella della “memoria dell’acqua”, considerata da molti una bufala, come scrivevano a suo tempo Giuseppe Remuzzi su Corriere.it, ma anche Stefano Della Casa su Wired e il giornale Oggiscienza, per citarne alcuni. «Sono ipotesi di lavoro – commenta a proposito Pregliasco – di sicuro lo stress ossidativo indica un danno cellulare e quindi un’azione continua di ripristino del malfunzionamento di qualche apparato. La conseguenza è che si possa innescare un’alterazione in seguito a questa irritazione. Un esempio è il fumo: non è una sigaretta a causare il danno, ma lo stimolo irritativo sulle parete delle vie respiratorie che a lungo andare può portare al tumore del polmone. L’organismo tende sempre a riparare il danno, ma nel tempo lo stesso meccanismo può alterarsi danneggiando il corpo».
«Lo studio sull’Alzheimer – conclude Pregliasco – così come altri lavori, apre a nuove ipotesi: la scienza va avanti così per tentativi ed errori, noi abbiamo la speranza che le nostre ipotesi si traducano immediatamente in risposte cliniche, positive, ma la scienza necessita di tempi lunghi. L’importante però è continuare a discuterne e che le ricerche vadano avanti. Solo così possiamo sapere di più sulla malattie e trovare delle cure».