ERACLEA, Venezia – Vive da quattro mesi in via degli Olivi, Eraclea Mare, Veneto. Odike (nome di fantasia per tutelare la sua identità) è scappato dalla Nigeria dopo aver visto ammazzare sotto il suo naso l’allenatore della squadra di calcio per cui giocava da professionista. È successo quando la sua città, a maggioranza cristiana, ne ha sconfitta una musulmana. E miliziani di Boko Haram, l’organizzazione islamista che spadroneggia nel nord del Paese, hanno trovato il modo per vendicare la sconfitta. I compagni di Odike da quel momento hanno solo cercato di mettersi in salvo, e molti sono scappati verso l’Europa.
In un pomeriggio di settembre, davanti al residence in cui è ospitato insieme a circa altri 150 richiedenti asilo, mi fa una domanda semplice: «Perché ci vuole così tanto per avere il riconoscimento di rifugiato politico?». In Italia, gli hanno detto, occorrono tra gli otto mesi e un anno. A volte però si aspetta anche per due anni. Per lui, nigeriano, non ci saranno scorciatoie e l’idea di fuggire e andare direttamente in Germania, una delle destinazioni prescelte insieme al Regno Unito, non lo porterebbe a nulla. Angela Merkel, che ha deciso di sospendere il Trattato di Dublino e di accogliere subito i rifugiati siriani, velocizzando le procedure e senza rispedirli nel primo Paese europeo di ingresso (come il Trattato richiede), non accetterebbe il nigeriano Odike. Nonostante lui sia in fuga da un gruppo islamista tanto feroce quanto quelli che stanno sgretolando la Siria e la sua gente.
Qualunque siano le ragioni che la muovono (si racconta da giorni che i siriani ora in fuga sono professionisti, ingegneri, laureati. Persone qualificate e con sicurezza economica) di fronte ai racconti di Odike e dei suoi compagni, quella di Merkel suona come una «selezione etnica» forse non del tutto lecita.
«Perché occorre così tanto per avere il riconoscimento di rifugiato?», chiede Odike che vorrebbe raggiungere la Germania
Si avvicinano altri ragazzi, sempre nigeriani, sempre cristiani, sempre in fuga da Boko Haram. La domanda che fanno è la stessa. Mi lasciano intendere che stanno pensando di scappare: forse così faranno più in fretta a raggiungere lo stato in cui vogliono vivere, Germania o Regno Unito. Meglio non farlo. Sarebbero rispediti in Italia, il paese in cui hanno lasciato le impronte digitali. Oppure, se provassero la strada dell’illegalità, cadrebbero facili vittime di chi li può sfruttare perché privi di documenti e diritti. Ascoltano attenti. Ma fremono. Hanno corpi energici, di quelli che hai solo a diciotto, venti anni. Di quelli in cui è difficile trattenere la voglia di fare, andare, iniziare a lavorare e ricostruirsi una nuova vita. «È dura accettare di non fare nulla per giornate intere», spiega Odike. «Siamo andati a cercare lavoro, mi sono presentato agli allenatori delle squadre di calcio qui in zona. Ma dicono che senza documenti non posso fare nulla». L’unico sfogo che hanno questi ragazzi, oltre a vagare mattina, pomeriggio e sera su via Dancalia o in riva al mare osservando distaccati i turisti tedeschi, sono gli allenamenti settimanali in una squadra creata apposta per loro da volontari.
«Odike e compagni lasciano capire che stanno pensando di scappare. Ma in Germania non otterrebbero sconti, non sono siriani
Ma non basta. C’è fretta di andare. E ci sono sogni e vite da realizzare. Uno, persino due, anni di attesa quando hai vent’anni sono un’eternità. Per un siriano e per un nigeriano. Se c’è una cosa tuttavia da riconoscere alla Germania di Angela Merkel è che lassù il tempo medio per ottenere lo status di rifugiato politico è di 5,3 mesi (dati del Governo tedesco). E l’Italia a questo dovrebbe conformarsi il prima possibile.