Matteo Renzi ha promesso che il prossimo 16 dicembre sarà l’ultima volta che gli italiani pagheranno una tassa sulla casa. Non è sicuramente il primo a fare proposte di questo tipo. Negli ultimi anni, gli italiani si sono abituati a modifiche (troppo) frequenti relative all’imposizione immobiliare, facendo probabilmente felici i commercialisti che, naturalmente, sguazzano nella schizofrenia delle nostre leggi in materia fiscale. L’imposta sulle abitazioni viene infatti abolita da Berlusconi (dopo un primo intervento, sostanziale, in questo senso di Prodi), torna nel 2011 come Imu, viene quindi nuovamente abolita per diventare Tasi. Anche se ora Renzi interviene nuovamente sulla materia, cancellando la Tasi, il contribuente italiano farebbe bene a affidarsi a un chiromante per sapere cosa potrà accadere tra un paio di anni.
In ogni caso, la scelta del governo lascia perplessi per una serie di ragioni.
Le cifre non tornano se si vogliono coprire i 25-30 miliardi di cui si discute per la legge di Stabilità 2015
Primo, come ricordato da tanti tra cui anche il ministro Padoan, un taglio delle tasse finanziato a debito – la cosiddetta flessibilità che ci garantirebbe l’Europa – non ha senso perché non ha l’effetto auspicato di aumentare la domanda interna. È vero che il governo parla anche di spending review (10 miliardi) e di riduzione di alcune agevolazioni fiscali (che però comporta un aumento, a volte giusto, di tasse per alcuni): ma le cifre non tornano se si vogliono coprire i 25-30 miliardi di cui si discute per la legge di Stabilità 2015. Infatti, molte delle coperture indicate sono in gran parte già impegnate dalle clausole di salvaguardia onde evitare un aumento dell’Iva. Se il governo ha qualche provvedimento magico nel suo cappello, forse dovrebbe metterlo subito sul piatto in modo che possa essere discusso e analizzato anche da esperti indipendenti.
Sarebbe molto più ragionevole intervenire in maniera strutturale sull’Irpef (correggendo il pastrocchio degli 80 euro
Secondo, mentre è giustissimo ridurre le tasse, la scelta di partire dalla Tasi non lo è. È vero che il governo ha ridotto il costo del lavoro con interventi precedenti (80 euro, intervento Irap, etc.), ma il cuneo fiscale, ovvero la differenza tra il costo di un lavoratore per una impresa e quanto da questi percepito, resta molto elevato, circa 13 punti percentuali in più rispetto alla media Ocse e quasi 8 punti in più della Spagna (dati 2015). Infatti, se guardiamo alla imposizione implicita sul lavoro, ovvero il rapporto tra gettito effettivo sui redditi da lavoro in rapporto alla loro consistenza, l’Italia registra un 42,3 percento, contro i 38,6 di Francia, 37,1 di Germania e 33,2 di Spagna (dati 2011). Quindi, sembra molto più ragionevole intervenire in maniera strutturale sull’Irpef (correggendo il pastrocchio degli 80 euro che vengono, correttamente, registrati come spesa dalle agenzie statistiche europee) o sui contributi sociali. In questo modo si favorirebbero quei germogli di ripresa evidenti nel mercato del lavoro.
Difficile che un reddito netto aggiuntivo di circa 15 euro in più al mese cambi le abitudini delle circa 18 milioni di famiglie italiane che possiedono un immobile
Terzo, anche se l’eliminazione della Tasi fosse coperta strutturalmente da minori spese, non è detto che il provvedimento avrebbe l’effetto economico sperato. L’importo annuo medio della Tasi, per una famiglia senza figli, è circa 200 euro nelle città capoluogo, e 166 negli altri comuni: difficile che un reddito netto aggiuntivo di circa 15 euro in più al mese cambi le abitudini delle circa 18 milioni di famiglie italiane che possiedono un immobile, o che stimoli le compravendite immobiliari. Se l’obiettivo fosse quest’ultimo, molto meglio intervenire sulle imposte di registro, che sulla prima casa sono pari al 2% (molto più alte invece su abitazioni diverse dalla prima casa): per esempio, 4000 euro per una abitazione del valore di 200mila euro. Inoltre, l’acquisto dell’abitazione principale, in Italia come in altri paesi, già beneficia del trattamento fiscale favorevole relativo alle rate del mutuo spesso acceso per finanziare l’acquisto.
La scelta del governo sembra più dettata dalla convenienza politica che da un obiettivo di politica economica. La Tasi è un imposta indigesta proprio perché tante famiglie possiedono una casa (il 75% in Italia, contro il 53 di Germania e 64 di Stati Uniti), mentre pochi italiani pagano le tasse: i contribuenti effettivi (ovvero che pagano almeno 1 euro di tasse) sono solo 31 milioni, e il 4 percento dei contribuenti paga un terzo dell’Irpef complessiva (dati 2013).