Romano Cagnoni: «La guerra è ripetitiva, ma non le foto che la raccontano»

L’intervista

Non c’era momento migliore per chiedere a Romano Cagnoni, alla soglia degli ottant’anni, di parlare del suo lavoro di fotografo di guerra. La galleria War Photo Limited di Dubrovnik gli ha appena chiesto di realizzare, per la prossima estate, una retrospettiva delle sue foto di conflitti. A Pietrasanta, Lucca, è davanti al computer, intento a mettere in ordine il meglio dei suoi scatti. Soldati, case sventrate dai bombardamenti, visi sofferenti, profughi. Con la sua macchina fotografica ha attraversato le guerre della storia, dal Vietnam alla Siria, dove è stato cinque mesi fa insieme a sua moglie Patricia per realizzare il progetto Je suis réfugié, con i selfie dei rifugiati. «Per dire: “Io sono una persona, non un rifugiato”», spiega.

Tutto comincia nel 1962, quando si trova in Nuova Guinea per documentare quella che chiama «una guerriglietta» tra olandesi e ribelli. «Fu quella la mia prima esperienza a contatto con la guerra», dice. Ma il vero battesimo è il Vietnam. «Si fece una cooperativa a Londra», racconta. «Eravamo in tre: Simon Guttmann, che era stato il maestro di Robert Capa, il giornalista James Cameron, e io. Siamo stati i primi al mondo a essere ammessi nel Vietnam del Nord, mentre tutti si trovavano nel Sud». Per entrare ad Hanoi bisognava essere legati al partito comunista. «Grazie a una lunga operazione diplomatica di Simon Guttmann, alla fine riuscimmo ad avere quel visto. Poi arrivarono anche gli altri». È sempre stata questa la caratteristica di Cagnoni: fare quello che gli altri non fanno, trovare una prospettiva propria per raccontare i conflitti. «È anche una questione pratica di sopravvivenza, per farsi comprare le foto dai giornali», ammette.

In fondo, dice, «la guerra è sempre quella: gente che combatte l’una contro l’altra e gente che muore. Le cose che succedono in guerra sono ripetitive, così come la vita è ripetitiva. E anche la documentazione di guerra rischia di esserlo. Qualunque persona si trovi in una situazione drammatica può fare foto interessanti. Ma il fotografo più attento va oltre la cronaca di guerra e riprende situazioni che rendono una fotografia unica».

E il metodo di Cagnoni per farlo non è mai cambiato: «Cogliere la spontaneità delle persone. È questo l’aspetto che mi ha sempre interessato della guerra. Nella guerra si scopre tutta la natura umana. I sentimenti sono più evidenti che in altre situazioni: paura, angoscia, pericolo, dolore. La fotografia ha questa libertà d’azione che ti permette di documentare i sentimenti del prossimo». Che poi sono quelli che ci aspettiamo di vedere. «I sentimenti immaginati che ho trovato nell’arte o in letteratura volevo trovarli dal vero». Certo, «devi anche trovarti nel posto giusto, e molto dipende dal sapersi muovere. Perché se non sai muoverti ti trovi nei guai. In una guerra in cui ci sono due fazioni contrapposte devi andare da un lato o dall’altro. Il problema, come nel caso della Siria attuale, è quando di lati ce ne sono tanti».

Le foto di Romano Cagnoni non sono mai uguali ad altre. Il senso del disegno è quasi un’ossessione. Catturare l’immagine giusta, che possa trasmettere un messaggio «culturalalmente valido» oltre i fatti quotidiani, è il suo imperativo. «Durante la guerra del Biafra ho visto delle reclute che si addestravano. Li ho seguiti per molto tempo, e alla fine sono riuscito a trovare la foto giusta per renderli massa e raccontare la perdita di individualità di quelle persone». Life pubblicò subito quello scatto.

(Reclute in Biafra, 1968)

In Cecenia Cagnoni allestì invece uno studio fotografico per ritrarre i guerriglieri come se fossero dei modelli, «con l’obiettivo di dare la sensazione che in quel conflitto non si capiva più niente, tra chi combatteva e chi no». Nella guerra in Jugoslavia usò addirittura il banco ottico per mostrare l’“architettura” delle distruzioni belliche, a partire dai palazzi dell’antica Dubrovnik. In Siria, in mezzo alla città di Kobane distrutta, «sono riuscito a fotografare una ragazzina di 14 anni mentre fotografava con lo smartphone un guerrigliero dell’Isis morto sotto un bombardamento», racconta. E poi ci sono foto «che puoi fare solo in alcuni posti. In Cambogia, per esempio, ho fotografato dei feriti a terra, con sullo sfondo dei monaci vestiti di arancione. Quella foto potevi farla solo lì». È vero, ribadisce, «le situazioni in guerra si ripetono, abbiamo tutti idea di cosa sia una guerra, ma il fotografo che va oltre è quello che riesce a fare foto nuove».

(Guerrigliero in uno studio fotografico a Grozny, 1995)

(Dubrovnik bombardata, 1991, realizzata con il banco ottico)

Anche dalla Siria, «arrivano foto molto simili tra loro», dice. E la stessa foto del bambino siriano Aylan, trovato morto annegato su una spiaggia turca, «è diventata importante per l’evento in sé che racconta, ma di certo poteva esser fatta meglio; è un’immagine così dolorosa che si poteva rendere molto meglio la fine della speranza. E anche quando il massiccio poliziotto prende in braccio il piccolo si poteva rappresentare meglio la pietà che in fondo quella scena rappresenta. Come fotografo devo fare queste distinzioni». Ma «è comunque un bene che qualcuno abbia scattato quella foto, tutti devono avere una macchina fotografica», dice Cagnoni. «È un’immagine importantissima che rappresenta il dramma che sta avvenendo e che ha risvegliato gli animi. Attenzione: non tanto per la foto in sé, ma per quello che è successo. La foto l’ha fatto vedere». Ed è per questo, dice, che «andava mostrata e pubblicata. Un conto è se io fotografo un corpo morente con il cranio di fuori che nessuno vuole vedere. Ma dopo tutta l’indifferenza verso la tragedia dei profughi, perché non fare vedere una foto così importante? La gente è abituata a vedere questi disastri, è abituata alle immagini di Michelangelo e di Goya».  

(Romano Cagnoni, classe 1935)

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