Comprereste mai una maglietta da quel bambino sfruttato? Una domanda meno banale di quanto possa sembrare: su YouTube sta circolando un video che ha quasi raggiunto sette milioni di visualizzazioni. Mostra un distributore automatico di t-shirt a due euro, in centro a Berlino. Quando passanti o turisti inseriscono la moneta per acquistare il capo di vestiario iper-economico, nel box parte un filmato che racconta la filiera di quelle magliette: si vedono stabilimenti situati nei Paesi con la manodopera più a basso costo del mondo, donne e bambini costretti a orari di lavoro massacranti, anche sedici ore al giorno, per paghe inferiori ai tredici centesimi l’ora.
Alla fine del video viene chiesto al potenziale cliente se è ancora deciso a comprare la maglietta o, piuttosto, a donare quei due euro. Quasi tutti decidono di rinunciare allo shopping a basso costo e optano per il gesto solidale.
Morale della favola? «I consumatori hanno fame di informazioni. Vogliono poter prendere scelte consapevoli rispetto a ciò che comprano». A rispondere è Claudia Stasserra – ospite nella redazione de Linkiesta per l’OpenTalk del 15 settembre, dedicato al “vero prezzo di ciò che compriamo”.
Claudia Strasserra lavora per Bureau Veritas, una delle società leader a livello globale nei servizi di controllo e certificazione per la qualità, la salute, la sicurezza e l’ambiente. «Il nostro lavoro è come quello di un notaio: dobbiamo certificare, con evidenze oggettive, che quanto dichiarato dalle aziende nei propri report di sostenibilità, o nelle proprie campagne di comunicazione, corrisponda al vero. Spesso si tratta di andare a ricostruire intere filiere produttive, mappare la storia di un prodotto, dal primo fornitore fino all’ultimo scaffale dove viene distribuito».
Bureau Veritas è leader mondiale nelle certificazioni sulla qualità, l’ambiente e la salute. Claudia Strassera: «Siamo come dei notai: verifichiamo che quanto dichiarato dalle aziende corrisponda al vero»
Un lavoro che non è affatto facile: «Ci sono aziende a cui non interessa affrontare il problema. Vogliono soltanto che la merce venga consegnata nei tempi concordati, nelle quantità concordate. Spesso si avvalgono di outsourcers, altre volte sono gelose custodi del proprio know-how e non gradiscono fornire i propri “segreti” a una parte terza». Un ultimo cruciale problema è che per alcune società è complesso risalire al percorso che dallo stabilimento di Shenzhen conduce alla Silicon Valley, soprattutto fra le grandi multinazionali: «Per i signori Apple è più difficile ricostruire quella “mappa”». Tuttavia «la resistenza da parte delle aziende a monitorare i propri processi produttivi sta cambiando, si sta affievolendo. In molte cominciano a capire che il rischio di veder crollare la propria reputazione è concreto e molto elevato».
Senza tornare indietro nei decenni a casi storici che riguardarono i comportamenti, per esempio, di Nike o di Nestlé, basti pensare a cosa è successo meno di un anno fa a Moncler, dopo che la trasmissione di Rai3, Report, aveva documentato la pratica dello spiumaggio delle oche. Oppure il dibattito scatenato dalla recente inchiesta del New York Times, sulle condizioni dei lavoratori negli stabilimenti di Amazon.
Campagne stampa aggressive, ira dei consumatori (e nel caso di Moncler, la rabbia delle associazioni animaliste), richieste di chiarimenti ai vertici aziendali – un’azienda può dover affrontare ingenti perdite, in casi come questi.
Le società stanno iniziando a rendersi conto che i rischi reputazionali sono troppo elevati. I casi Moncler e Amazon lo dimostrano
Ed è paradossale che le aziende più a rischio sono proprio quelle che decidono di comunicare con i propri clienti: «Mentire sulla propria comunicazione, magari vantando successi dove invece esistono zone d’ombra, è peggio che non aver comunicato affatto», constata Claudia Strasserra. Si può avere una sorta di effetto boomerang.
Uno dei grandi stereotipi relativi ai problemi dello sfruttamento del lavoro, all’impatto ambientale di un’azienda o alla violazione dei più elementari diritti umani, è quello che queste pratiche riguardino solo Paesi in via di sviluppo: «I casi che incontriamo non vengono affatto tutti dalla Cina o dalla Thailandia. Nelle filiere degli agrumi o dell’ortofrutticolo abbiamo diversi casi anche in Italia, dove paghiamo una carenza di controlli da parte delle autorità pubbliche. Noi di Bureau Veritas siamo pur sempre dei privati, che fanno queste certificazioni a uso e consumo del mercato e dei consumatori, su commissione delle imprese. Capita di controllare delle aziende con i nostri ispettori – fuori dall’orario lavorativo ufficiale, quando è più facile che si verifichino comportamenti dannosi – e chiedere se siano mai passati dei controlli pubblici: la risposta spesso è no».
In Italia i settori più a rischio di violazioni rimangono alimentare e moda: «C’è grande attenzione da parte dei consumatori in questi due mondi. Il caso della moda è esplicativo: il bello non sempre coincide con l’etico, il trasparente e il pulito. Inoltre i consumatori sanno perfettamente di pagare cifre elevate, a volte spropositate, per una borsa o una giacca e quindi si aspettano dal produttore standard rigorosi».
Nell’alimentare invece i problemi si pongono sopratutto per la lunghezza delle filiere: «Nella grande distribuzione esistono una molteplicità di rischi legati proprio all’aspetto dimensionale. Inoltre vanno monitorate le diverse “linee certificate”. In Italia possiamo fare l’esempio di Coop con tutti i suoi prodotti a marchio, certificati SA8000». È la sigla che dal 2008 certifica il rispetto dei diritti umani, le tutele dei lavoratori e la salubrità sul posto di lavoro. «In realtà la SA8000 è una certificazione scelta da molte catene – spiega Claudia Strasserra – ma, come visto, alcune aziende decidono di farne un punto di forza e comunicarlo alla propria utenza, altre non lo fanno proprio mentre altre ancora preferiscono farlo con un linguaggio tecnico, destinato agli addetti ai lavori».
Lo sfruttamento e i danni ambientali non riguardano solo i Paesi in via di sviluppo. Abbiamo diversi casi in Italia nel mondo dell’agroalimentare e della moda. A livello internazionale il sorvegliato speciale è la gioielleria
Un altro sorvegliato speciale, a livello internazionale, è il mondo della gioielleria: «Si stanno facendo passi in avanti, molte aziende si sono anche riunite in un’associazione che verifica la responsabilità d’impresa, hanno elaborato una sorta di decalogo etico. Il problema è che in questo settore è spesso il consumatore ad essere meno esigente e sensibile, per esempio quando acquista diamanti che hanno finanziato i conflitti locali africani, o l’oro estratto in miniere dove lavorano i minori». E si paga anche un ritardo culturale e normativo: «Negli Stati Uniti esiste una legislazione specifica che riguarda il mondo dei gioielli e dei metalli preziosi, in Europa c’è solo una proposta di regolamento per il momento. Dovrebbe vedere la luce nel giro di un paio d’anni».
Ma quali sono i criteri per stabilire quali aziende sono “virtuose” e quali no? «Noi facciamo riferimento alle normative e alle direttive della Ilo – l’Organizzazione mondiale del lavoro. Sulla tutela dei lavoratori esistono convenzioni oramai riconosciute globalmente. Poi per ogni settore ci sono dei protocolli di riferimento, generalmente le norme Iso, che condensano nero su bianco quali sono le best practices per minimizzare l’impatto sociale e ambientale della produzione. Il vero problema? È che alla violazione di queste norme non corrisponde una sanzione. «L’Organizzazione mondiale del lavoro non ha poteri sanzionatori e allora spetta al consumatore “punire” i comportamenti borderline. La vera sanzione per le aziende è quelle del mercato, la perdita di clienti e di quote».
Per combattere le violazioni esistono le norme dell Organizzazione mondiale del lavoro e i protocolli Iso. Il problema? Chi li viola non incorre in sanzioni. «La vera sanzione deve darla il mercato»
Di quali risposte abbiamo bisogno? «I problemi si risolvono facendo rete, con l’alleanza fra più soggetti: imprese, associazioni di categoria, Ong sul territorio. Anche perché il singolo imprenditore virtuoso o con un etica ferrea può fare ben poco. Al massimo può mettere pressione sul suo sub-fornitore in modo da fargli adottare standard più elevati o, in seconda battuta, cambiare sub-fornitore. Ma così facendo non si va alla radice dei problemi, ci si ferma solo all’aspetto superficiale».
Per Claudia Strasserra, inoltre, è fondamentale modificare la cultura d’impresa. Chiude con un ammonimento: «Dobbiamo convincerci che esista la possibilità di produrre a costi ragionevoli. Non esiste necessariamente un trade off fra prezzo e garanzie».