Sla, l’odissea dei malati dimenticati

Sla, l'odissea dei malati dimenticati

Muovere gli occhi su un puntatore oculare per salvarsi da un marito sfiancato da solitudine e rassegnazione. Anche questa è la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica: ne è affetta Tatiana, la donna dai muscoli atrofizzati che, bloccata a letto nella sua casa di Villaretto di Roure in provincia di Torino, è riuscita a muovere lo sguardo su un monitor per mandare un sms di aiuto al fratello e salvarsi dalla violenza del marito, Fabrizio, «andato fuori di testa per lo stress» come lui stesso ha detto davanti al giudice.

Ora Tatiana è salva, a casa del padre, mentre Fabrizio è stato arrestato, processato per direttissima e liberato con il divieto di avvicinarsi alla casa del cognato. La paura sembra dunque essere passata, ma ciò che rimane è una storia tutta italiana di abbandono e impotenza di fronte a una malattia invalidante e degenerativa.

Iniziamo però sfatando qualche mito: non è, come si potrebbe pensare, un problema legato alla ricerca. I neurologi italiani forniscono infatti un importante contributo alla ricerca scientifica addirittura mondiale sulla Sla, e hanno consentito all’Italia di posizionarsi nel 2014 al secondo posto, dopo gli Stati Uniti, per numero e rilevanza di pubblicazioni scientifiche. «È italiana – spiega il dottor Christian Lunetta, neurologo del centro clinico Nemo di Milano – la scoperta del gene C9872 che rallenta il decorso della malattia», e sempre in Italia sono presenti due consorzi che raccolgono dati e materiale biologico dei due terzi della popolazione nazionale affetta da Sla.

La ricerca scientifica sulla Sla in Italia è di alto profilo: seconda posizione dietro agli Usa per pubblicazioni scientifiche, consorzi che raccolgono dati e la scoperta del gene C9872

Non è nemmeno un problema di carattere economico. Ogni anno in Italia si ammalano circa 5.000 persone, ciascuna delle quali costa 160mila euro: una spesa affrontata in parte dal paziente, tra fase terminale, consulenze di medici specialisti e terapie intensive, in parte dallo Stato, almeno per quello che riguarda la prima diagnosi e i macchinari prescrivibili inseriti in una apposito catalogo.

Ciò che nella nostra nazione manca sono piuttosto centri in cui si convogli personale specialistico che possa offrire un servizio di assistenza, cura e formazione dedicato al paziente e alla famiglia. In Italia esistono 98 presidi accreditati per la diagnosi, la certificazione e le definizioni terapeutiche per la Sla su tutto il territorio nazionale.

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Si tratta di una rete di centri medici per le malattie rare che seguono il paziente fino alla degenza, spesso affrontata a casa: un grande aiuto che tuttavia si concentra in poche (e note) regioni italiane. Per fare qualche esempio, i presidi Aisla della Lombardia sono 21, 3 quelli del Piemonte, in Lazio ce ne sono 2, come in Abruzzo. «Ogni regione decide in quale ambito investire maggiormente le proprie risorse – dice il dottor Renato Pocaterra, segretario generale di Fondazione Serena onlus dell’Ospedale Niguarda Cà Granda di Milano – ma di una cosa sono convinto: piuttosto che avere molti presidi locali poco specializzati è meglio concentrare soldi e ricercatori in pochi hub, di alta specializzazione dove si conduca un lavoro di presa in carico e cura del paziente al massimo livello di competenza».

I centri specialistici di Aisla per le malattie rare sono 21 in Lombardia, 3 in Piemonte, 2 in Lazio e Abruzzo. La lodo distribuzione sul territorio nazionale è a macchia di leopardo

Un discorso che può andare bene nei momenti di diagnosi, certificazione e definizioni terapeutiche della malattia. Quando cioè un paziente malato di Sla rimane “al sicuro” in una struttura dotata di personale e macchinari. Quando invece si passa alla fase più lunga e impegnativa, quella della degenza, non si rischia di dimenticarsi dei casi isolati? «A questo proposito – spiega la dottoressa Stefania Bastianello, responsabile della formazione di Aisla, l’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica – è molto importante permettere al paziente, al termine di visite ambulatoriali, day hospital o ricoveri ordinari, di tornare a casa e qui avere un’assistenza domiciliare di alto livello, che non è certo quella fornita dai badanti degli anziani o, addirittura, dai famigliari».

A questo punto entrano in gioco gli assistenti famigliari, badanti altamente specializzati nel trattamento delle malattie neurodegenerative, che vengono formati da centri come quelli di Aisla. Quest’ultima nel 2015 ha formato 60 assistenti ogni 100 pazienti solo su Milano. È più facile incontrare questi numeri positivi in Lombardia – seconda regione per densità di popolazione dell’Italia – e nel suo capoluogo, che non in altre aree del Paese.

Oltre alla distribuzione “a macchia di leopardo” di presidi specializzati, il vero problema del trattamento della Sla in Italia è il senso di perenne abbandono in cui vivono i malati e le loro famiglie: la mancanza di assistenti famigliari, soprattutto in zone poco coperte dal servizio sanitario nazionale, getta chi vive a contatto con Sla nell’insicurezza e nell’angoscia. Se invece aumentasse il numero di badanti specializzati si impedirebbe a molte famiglie di vivere un dolore che, in casi limite, può culminare nel gesto estremo di Fabrizio.

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