Tra poche settimane il governo Renzi presenterà la Legge di Stabilità: lo strumento con cui si indicano le coperture delle spese e gli obiettivi di finanza pubblica, in termini di deficit e debito pubblico.
Dopo i timidi, ma sicuramente incoraggianti, segnali di ripresa dell’economia (disoccupazione in discesa, consumi e Pil in crescita) registrati nella nota di aggiornamento al Def, il governo si trova ora davanti a un bivio: continuare a stringere la cinghia per diminuire il debito pubblico, o utilizzare i margini di flessibilità (ovvero maggiore debito) per rendere meno dolorose le riforme strutturali che vuole approvare e che sono l’unico strumento per incrementare la produttività e la crescita del Paese.
Se il governo avesse un programma ambizioso di riforme strutturali, i bassi tassi di interesse sul debito potrebbero essere usati per finanziare la possibile contrazione temporanea dell’economia
Secondo la Bce dovremmo approfittare della congiuntura favorevole per diminuire il debito. Il timore dell’istituzione di Francoforte è chiaro: che l’Italia si culli nell’apparente tranquillità garantita, per buona parte, dal programma di “Quantitative easing” per rinviare scelte dolorose, o che più banalmente toccano gli interessi corporativi di tanti settori del Paese. D’altra parte, il solo risparmio legato ai minori tassi di interesse, di cui dobbiamo ringraziare Mario Draghi, vale circa 3,4 miliardi per anno, quasi il gettito annuale della odiata Tasi. Inoltre, dato il grande stock di debito, anche un moderato aumento del suo costo, per esempio in seguito a una futura crisi dell’economia cinese, porterebbe a un forte aumento della spesa per interessi.
Tuttavia, il governo ha già annunciato che intende seguire una strada differente. Nella stessa nota in cui ha rivisto al rialzo le stime di crescita, ha anche indicato un maggiore deficit e una diminuzione meno accentuata del debito pubblico. Fa bene il governo a non seguire l’esortazione della Bce? La risposta a questa domanda dipende da cosa il governo intende fare con la maggiore flessibilità.
Le incertezze su spending review e programma di riforme lasciano molte perplessità sulla prossima Legge di Stabilità. La disponibilità di nuove risorse ha già fatto scattare l’assalto alla diligenza
In linea di principio, se il governo avesse un programma ambizioso di riforme strutturali, da implementare in tempi stretti, allora i bassi tassi di interesse sul debito potrebbero essere usati per finanziare la possibile contrazione temporanea dell’economia, possibile conseguenza di breve termine di alcune riforme, come anche forme di compensazione per accompagnare imprese e lavoratori dei settori interessati nella fase di transizione. Per esempio, se si volesse lasciare la possibilità a Uber di operare nelle città italiane, si potrebbe pensare a compensazioni per i possessori di licenze taxi, soprattutto per chi le avesse acquistate più di recente. Nel medio periodo, i cittadini italiani starebbero meglio: ci si sposterebbe con maggiore facilità e a minore prezzo, e avremmo meno traffico e inquinamento. E, come per i taxi, sono tantissime le aree della nostra economia in cui rendite corporative sono difese con il coltello tra i denti. Noi italiani non possiamo comprare l’aspirina o lo sciroppo per la gola al supermercato; siamo costretti, di fatto, a rivolgerci a una agenzia privata per espletare le pratiche di vendita di un auto o un motorino e finanche per rinnovare una patente; dobbiamo rivolgerci esclusivamente a un notaio per passaggi di proprietà immobiliare, e così via. Queste rendite sono ovviamente un costo, una tassa, per tanti cittadini, e una fonte di reddito per pochi, e dovrebbero essere eliminate.
Sebbene non si possa negare lo spirito riformatore di questo governo, basti pensare agli effetti positivi del Jobs Act, le incertezze sul proseguimento del programma di spending review e del programma di riforme lasciano molte perplessità rispetto alla prossima Legge di Stabilità. La disponibilità di nuove risorse ha già fatto scattare l’assalto alla diligenza.
Il governo pensa davvero che una “digital tax” per Google, Facebook e Twitter non la pagheranno i cittadini italiani in termini di maggiori costi di pubblicità per le imprese?
Per esempio, meno di 10 miliardi di euro, rispetto ai 27 totali, saranno coperti da tagli di spesa: circa lo 0,5 per cento del PIL e solo 1 per cento della spesa pubblica complessiva. Sembra che, per coprire i minori risparmi di spesa, il governo voglia ora anticipare la cosiddetta “digital tax”, per colpire i redditi off-shore di colossi come Google, Facebook e Twitter rispetto al volume di affari generato nel nostro paese. Ma il governo pensa davvero che questa nuova tassa non la pagheranno i cittadini italiani, in termini di maggiori costi di pubblicità per le nostre imprese? L’esperienza recente dovrebbe insegnarci qualcosa: quando, nel 2014, il ministro Franceschini aumentò la tassa sui dispositivi elettronici provvisti di memoria (il cosiddetto “equo compenso”), Apple aumentò immediatamente il prezzo di tutti gli iPhone venduti in Italia.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Il nostro governo affronta oggi un problema ben studiato in politica economica e legato agli incentivi di chi ci governa rispetto al ciclo economico. Le riforme dovrebbero essere fatte quando l’economia va bene, nelle fasi espansive, e non quando ci si trova con l’acqua alla gola e la disoccupazione galoppante. Purtroppo, quando poi effettivamente ci si trova in una fase espansiva dell’economia, i governi sono tentati dal comprare il consenso con provvedimenti inutili se non controproducenti. La prossima eliminazione della Tasi è un provvedimento esattamente di questo tipo. Come per Ulisse legato all’albero maestro e le sirene, le regole e i vincoli, per esempio quelli dell’Europa servono proprio per risolvere questo problema di incentivi.
Quando l’Italia entrò nell’Euro perse una grande occasione (e così Grecia e Spagna). I governi di allora utilizzarono i forti risparmi sulla spesa per interessi per finanziare maggiore spesa pubblica, anziché diminuire il debito e riformare l’economia. Ora il nostro Paese ha una nuova opportunità, non così attraente come quella di allora, e sprecarla sarebbe un delitto.