La ripresa è arrivata, perlomeno se pensiamo al segno più davanti alle cifre del Pil, ma soprattutto davanti a quelle dell’occupazione. Sono stati 325mila gli occupati in più ad agosto rispetto allo stesso mese dello scorso anno, la prima inversione di tendenza dopo anni di cali.
Tuttavia, come si sa nessun fenomeno economico è omogeneo, la storia che si dipana dall’inizio della grande crisi, dalla fine 2008 ad oggi, ha dei perdenti che sono più perdenti di altri: i giovani. In questi grafici, (dati Ocse), si nota come l’occupazione per classi d’età fosse composta, dal 2000 a oggi.
E qui, in un grafico probabilmente ancora più eloquente che mostra le percentuali occupazionali per generazioni: dai 15 ai 30 anni, i giovani. Quindi gli adulti, dai 30 ai 49 anni. E infine, in verde, gli over 50 anni, gli “anziani”.
In soli quattordici anni la quota di giovani tra gli occupati è passata dal 20% al 11,6%, quasi la metà, mentre nello stesso lasso di tempo la proporzioni di anziani è andata dal 23% al 32,7%. Si dirà che nel frattempo le riforme delle pensioni hanno trattenuto più ultra cinquantenni sul posto di lavoro e che anche la demografia ha avuto il proprio ruolo, diminuendo la percentuali di giovani sulla popolazione stessa.
Questo è stato vero fino allo scoppio della crisi economica, non dopo. Il grafico seguente mostra la proporzione tra i 20-24enni – il segmento più colpito dalla perdita di occupazione -, tra i lavoratori e la popolazione in generale.
Dal 2007, il numero di 20-24enni rispetto alla popolazione è rimasto lo stesso, smettendo di calare, probabilmente grazie all’immigrazione. La proporzione di giovani di questa età tra gli occupati, invece, ha continuato a diminuire, staccandosi dal trend.
Di ventenni ce ne sono, insomma, ma lavorano sempre meno. Si dirà che i giovani vanno di più all’università, che non lavorano perché studiano. No, invece: le persone immatricolate nelle università italiane sono in costante discesa, come confermano i dati del Ministero dell’Istruzione.
Il paragone con il resto d’Europa, poi, è piuttosto impietoso. In Francia, Germania, Regno Unito non solo la percentuale di giovani occupati è decisamente più alta, ma è più elevata anche la quota di giovani iscritti all’università.
La cosa più deprimente, probabilmente, è un’altra, però. L’Italia nel 2000 non solo era in linea con questi Stati, ma addirittura superava la Francia: erano il 7,2% contro il 7% i 20-24enni al lavoro sul totale degli occupati. Dopo quattordici anni il crollo ha colpito solo il nostro Paese, con un quasi dimezzamento che non è accaduto altrove.
Calo demografico? Sì, ma non solo. Il gap tra l’Italia e il resto d’Europa – in particolare con il Paese leader, la Germania – è aumentato anche per molti altri motivi. Alternanza scuola-lavoro, formazione professionale avanzata e specialistica fin dalle superiori, stage in azienda: al di là delle Alpi il lavoro per i giovani è più di una speranza, e così diventa quasi del 30% la differenza tra i tassi di occupazione dei 15-24enni italiani e quella dei coetanei tedeschi, 17,2% contro il 46,1% del Paese di Angela Merkel.
La Francia nel 2000 era in una situazione simile alla nostra: in termini di gap dalla Germania, oggi è a un livello anche migliore di allora. Non possiamo nemmeno più paragonarci ai cugini transalpini.
Il nostro è un problema molto serio: siamo il Paese con la spesa pensionistica più alta sul totale della spesa pubblica e non possiamo permetterci di avere sempre meno giovani al lavoro a pagare i contributi per il numero crescente di pensionati. Aumentare l’età pensionabile non potrà bastare, né cambiare i coefficienti in base alla durata della vita, o passare totalmente al sistema contributivo – cosa di per sè sacrosanta – se i contributi stessi sono sempre meno. “Una generazione perduta”, si dice parlando dei giovani italiani: più di un’espressione retorica, assomiglia a un’evidenza dolorosa.