Pochi lo sanno, ma il futuro della riservatezza dei dati degli abitanti europei è nelle mani di un gruppo di signori irlandesi. Per la precisione, di 50 persone che lavorano a Portarlington, un villaggetto nebbioso a pochi chilometri da Dublino, in un vecchio ufficio sopra un mini-market. Per essere precisi, a Canal House.
Qui c’è la sede irlandese della DPC (Data Protection Committee), che ha ricevuto l’incarico del governo di studiare e fissare i parametri per il controllo, la gestione e l’utilizzo dei dati degli utenti da parte delle grandi multinazionali del web. Si parla di Google, Facebook, LikedIn, Twitter. Ma anche Apple e Microsoft. Sono tutti finiti laggiù per i grandi vantaggi fiscali offerti dall’isola. E adesso, dopo che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha invalidato il quadro giuridico che definiva il trasferimento di dati a fini commerciali tra Europa e Stati Uniti (frase molto lunga per dire che c’è un grande caos da risolvere, al più presto, sui dati dei cittadini europei in mano alle aziende Usa), la DPC irlandese deve trovare una nuova soluzione.
I problemi, come si spiega in modo chiaro su We Domain, sono diversi. In primo luogo, la DPC avrebbe a disposizione solo 50 impiegati – e questo si spiega con il fatto che la comissione è nata nel 1998, quando l’idea che l’isola diventasse il porto sicuro delle multinazionali del web suonava come una barzelletta – e in effetti, a pensarci, lo è anche ora (con il leggero problema che coincide con la verità).
Oltre ad avere poche risorse, avrebbero anche un atteggiamento molto compiacente nei confronti dei giganti di internet. “Badano più agli interessi delle aziende che a quelli degli utenti”, denuncia qui Max Schrems, lo studente di legge austriaco responsabile della revisione dell’accordo per il trasferimento dati tra Bruxelles e Washington. E in parte è vero, dal momento che la commissione ammette che “il loro approccio nei confronti della rete è basato più sul dialogo che sullo scontro”.
Ma l’Irlanda non ci sta: accusa gli altri Stati di invidia e, per difendere la propria credibilità ha stanziato dei fondi (3,4 milioni di euro) per ingrandire e rafforzare i lavori della commissione. Certo, il fatto che quei soldi derivino, in parte, dalle (non alte) tasse pagate dalle grandi aziende del web è cosa che non può essere proprio dimenticata.