Ozlem Onder è una bella ragazza, di quella bellezza tipica dell’etnia curda. Sorride sempre nelle foto, come in quella che su Facebook la ritrae con la sua prima educatrice, Erica, che nel 2000 accolse lei, sua mamma e i suoi (allora) quattro fratelli in uno dei centri per rifugiati e richiedenti asilo del Comune di Milano. È proprio Ozlem, oggi rifugiata politica a Milano, a commentare così quel ricordo: «Riflettevo che dare accoglienza è molto facile. Il dopo è difficile. Cioè l’inserimento nella società, l’integrazione e l’autorealizzazione», soprattutto attraverso il lavoro.
Nel 2014 i richiedenti asilo sono stati 185mila in tutta Europa e in Italia sono più che raddoppiati rispetto all’anno precedente
I dati parlano da sé. Nel 2014 il tasso di occupazione nell’Unione europea di cittadini extracomunitari di età compresa tra i 20 e i 64 anni è stato molto basso: solo il 56,5% di essi è riuscito a trovare un lavoro. Le cause di questo squilibrio sono molte, prima fra tutte l’aumento dei richiedenti asilo che nel 2014 sono stati 185mila in tutta Europa e che in Italia sono più che raddoppiati rispetto all’anno precedente. Tanti i problemi legati a questo status: l’impossibilità di lavorare entro i primi sei mesi dall’inizio della procedura di richiesta, la crisi delle imprese, la diffidenza di molti datori di lavoro. Ma anche la difficoltà di queste persone ad adattarsi alla realtà sociale e lavorativa italiana, vuoi per impedimenti oggettivi, vuoi per negligenza.
In un momento di crisi com’è quello che stiamo vivendo non è facile trovare un impiego, né per i cittadini italiani né per quelli extracomunitari
Un ruolo importante nell’inserimento socio-economico dei richiedenti asilo e dei rifugiati è quello che giocano le cooperative sociali e i centri di accoglienza comunali che, in collaborazione con lo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, realizzano interventi di “accoglienza integrata” che vanno ben al di là della sola distribuzione di vitto e alloggio. «La situazione non è rosea – racconta Gianmarco Negri, responsabile dei progetti Sprar della cooperativa sociale Rinascita di Copertino, in provincia di Lecce –. In un momento di crisi com’è quello che stiamo vivendo non è facile trovare un impiego, né per i cittadini italiani né per quelli extracomunitari». In Puglia, poi, la faccenda è aggravata da un altro fattore: quei pochi che riescono a trovare lavoro rischiano di finire sfruttati nei campi, a raccogliere pomodori e angurie in nero. «Per questo motivo – prosegue – cerchiamo di agevolare il lavoro legale attraverso percorsi (tirocini formativi e borse lavoro, pagati dalla cooperativa) in aziende “fidate”: quelle che accolgono più volentieri i migranti sono quelle medio–piccole, gestite per lo più dai giovani, che devono iniziare da zero la formazione del personale». Si tratta di aziende che operano nel settore agricolo o artigianale, in cerca di manodopera destinata a svolgere mansioni che gli italiani fanno sempre meno volentieri. «Purtroppo però – chiosa Negri – solo il 10% di queste attivazioni si trasforma in contratti a chiamata o in una vera collaborazione lavorativa, mentre sono rarissimi i casi di stipulazione di contratti di lavoro a tempo indeterminato».
Una volta finita la borsa lavoro ottenuta al Nord, molti richiedenti asilo si trasferiscono al Sud. Dove lavorano in nero
Non se la passano meglio quei richiedenti e quei rifugiati che si trasferiscono nel ricco Nord: qui l’associazione Villa Amantea ha dato vita al progetto Sprar “Accoglienza profughi” in collaborazione con il Comune di Cesano Boscone e la Fondazione Sacra Famiglia Onlus: «Anche nella provincia di Milano, al contrario di quanto si potrebbe pensare, i richiedenti asilo e i rifugiati fanno fatica a trovare lavoro – spiega Corrado Ferulli, socio fondatore e volontario dell’associazione – e per questa ragione, finita la loro borsa lavoro, si trasferiscono al Sud. Qui lavorano in nero, spesso perché hanno agganci con amici e parenti che a loro volta vi collaborano». Per evitare questa situazione Villa Amantea ha aperto tre tirocini in altrettante aziende calabresi per collocarvi regolarmente 15 persone. «Ma non sempre il tirocinio evolve come avevi sperato – prosegue Negri –. Ci è per esempio capitato il caso di un ragazzo afgano che, finito il periodo di tirocinio, è stato assunto con un contratto regolare. Sembrava molto motivato, ma quando si è visto corrispondere 250 euro di stipendio mensile e una casa gratis ha iniziato ad avanzare pretese, tanto che ci siamo visti costretti a cessare la collaborazione. Per noi è stato un grande smacco».
Spesso i richiedenti asilo, dopo avere concluso il loro percorso formativo e in possesso di documenti, lasciano l’Italia
Un altro ostacolo in cui spesso le associazioni si imbattono è che i richiedenti asilo, dopo avere concluso il loro percorso formativo e in possesso di documenti, lasciano l’Italia e con lei anche tutto il percorso svolto assieme. «La cosa non mi stupisce – spiega Erica Rossi, educatrice che ha lavorato per 16 anni nei centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo a Milano –. La maggior parte delle persone che richiedono asilo politico in Italia sono, in realtà, migranti economici, gente che lascia volontariamente il proprio Paese alla ricerca di migliori condizioni economiche. Il loro obiettivo è il Nord, ma quello d’Europa». «E così – le fa eco Ozlem Onder, che è anche volontaria di SOS Emergenza rifugiati a Milano – impiegano il loro tempo di permanenza in Italia con qualche occupazione occasionale, senza in realtà impegnarsi in un’integrazione reale che passi anche per la ricerca di un lavoro». Non è il suo caso, né di quello della sua famiglia: in casa Onder le radici curde, ancora molto forti, hanno lasciato che la nostra cultura le “italianizzasse”, con il risultato che né per lei né per i suoi genitori trovare un lavoro è mai stato un problema. «Credo – conclude Ozlem – che ognuno debba metterci il giusto impegno: quello al lavoro è un diritto da garantire a tutti, a patto che nessuno si lasci andare al miserabilismo».