IntervistaMonti: «Sono gli Stati la rovina dell’Europa»

Una lunga intervista all’ex premier che parla di Renzi, di Kohl, di Draghi e di quell’«accozzaglia di politiche nazionali» che frenano il sogno degli Stati Uniti d’Europa

C’è poca politica in Europa, come spesso si sente dire, o forse ce n’è troppa? Sono le istituzioni di Bruxelles a paralizzare l’Europa o è l’Europa a essere divorata dalla visione di breve periodo delle politiche degli stati membri? C’è ancora spazio per leadership nazionali capaci di sacrificare se stesse per costruire, nell’interesse di tutti, un’Europa più forte? Il pessimismo razionale, e non convenzionale, di Mario Monti.

La costruzione europea non è mai stata così a rischio, in tutta la sua storia. Quando Draghi disse che, per salvare l’euro, avrebbe fatto whatever it takes – cioè tutto il necessario – grosso modo sapeva quanto era necessario e lavorava perché fosse anche possibile. Oggi per salvare l’Unione secondo lei c’è qualcuno che possa dire lo stesso, con la stessa consapevolezza delle “cose da fare”?
Alla BCE il trattato assegna un obiettivo esplicito, quello di mantenere la stabilità monetaria, ma anche uno implicito, quello di preservare l’integrità dell’euro, e su questo il presidente Draghi ha fatto leva per adottare i provvedimenti (dall’OMT alle misure non convenzionali) che permettessero all’euro di non perdere pezzi, cioè Paesi. Inoltre il trattato e lo statuto della BCE, oltre all’obiettivo, stabiliscono anche gli strumenti di cui dispongono gli organi decisionali della BCE. In questo contesto, Draghi ha peraltro avuto bisogno che si formasse un consenso politico per annunciare prima, e realizzare in seguito, il whatever it took.

Difficilmente Draghi si sarebbe spinto così in là di fronte al rischio che qualche autorevole capo di governo, all’indomani di un tale annuncio, avesse avuto una forte reazione critica. L’Italia ha dato un contributo determinante nel costruire questo consenso, con un lavoro insieme di pedagogia e di duro negoziato condotto dal governo dell’epoca. Così, al vertice della zona euro del 28/29 giugno 2012, anche gli stati che fino a quel momento si erano opposti al cosiddetto “scudo antispread” hanno finito per condividere la dichiarazione finale che riconosce la necessità di interventi di stabilizzazione, a certe condizioni, a favore di paesi non sottoposti a procedure di disavanzo eccessivo e in regola con le altre raccomandazioni della UE. Così implicitamente rassicurato, nel giro di poche settimane Draghi procedette dapprima al famoso annuncio e poi, con un’azione efficace di persuasione sugli organi decisionali della BCE, all’adozione dello scudo antispread, nella forma di OMT (Outright Monetary Transactions).

Ora, Lei chiede: nella situazione di oggi, chi dovrebbe adottare misure equivalenti a quelle prese dalla BCE nel 2012, non più per “salvare l’euro” ma per “salvare l’Europa”? Allora, una volta creatosi il consenso politico, si è mossa un’ istituzione europea, la BCE. Oggi, le misure necessarie dovrebbero venire prese da un’orchestra cacofonica di stati. Certo, c’è qualcuno la cui voce pesa più di quella di altri, come la Cancelliera tedesca, ma non basta. E poi, anche una nel momento in cui ci fosse una dichiarazione, mancherebbero gli strumenti. In pratica servirebbe una combinazione di hardware e di software che dipende da centinaia di milioni di cittadini europei. Eppure, a questo bisognerà arrivare.

«Oggi in Europa – cioè nelle istituzioni europee – c’è molta politica, ma questa politica è un’accozzaglia di politiche nazionali»


Mario Monti

Va bene, non c’è un’istanza paragonabile alla BCE in grado di fare quello che ritenesse necessario fare per salvare l’Europa. Però la questione sostanziale è se esista una consapevolezza altrettanto forte e precisa di ciò che sarebbe necessario fare. Se anche con la bacchetta magica di cui lei parlava noi creassimo l’istanza decisionale e un contesto di consenso per una decisione, chi saprebbe prenderla, e sopratutto quale sarebbe?
Non c’è né il chi, né il cosa. Ci sarebbero se la “testa” dell’Europa si mettesse a ragionare e a decidere politicamente avendo in mente l’interesse dell’Europa, ma oggi non è così. Un organo deputato a questo compito esiste e si chiama Consiglio Europeo, ma purtroppo non sta operando in questo modo.

Quando si dice “in Europa è arrivato il momento di meno tecnocrazia e di più politica” si dice qualcosa di equivoco. Oggi in Europa – cioè nelle istituzioni europee – c’è molta politica, ma questa politica è un’accozzaglia di politiche nazionali. Ci sono ventotto politiche nazionali, con ventotto signore e signori che si riuniscono nel Consiglio Europeo e che dovrebbero essere la mente e il braccio politico dell’Europa, ma che di solito decidono guardando unicamente agli effetti politici nazionali di quelle decisioni. Neppure all’interesse nazionale di lungo periodo – si badi – ma all’effetto sui sondaggi dell’indomani o sugli equilibri interni delle rispettive compagini di governo.

Le politiche nazionali dovrebbero rimanere a casa loro, non invadere, in modo evidentemente incompatibile e disorganico, lo spazio che è stato previsto per la politica europea. Il fatto è che l’Europa viene divorata dalle politiche nazionali, è un fenomeno di “eurofagia”. Sicuramente c’è una crisi politica dell’Europa, ma non si risolve cercando di fare assomigliare di più la politica a livello comunitario alle dinamiche politiche che vediamo nei singoli paesi. Questo non vuol dire risolvere la crisi politica europea, ma anzi trasferire anche sul piano comunitario la crisi che oggi attanaglia quasi tutte le democrazie nazionali. Questa crisi ha caratteri precisi: l’orientamento sul breve periodo, la sottovalutazione dell’effetto “di governo” delle scelte e la sopravvalutazione del loro impatto mediatico, la semplificazione del dibattito e delle proposte, anche a fronte di problemi complessi. Così si premiano e si premieranno sempre gli iper-semplificatori, che sono i nazionalisti e i populisti. Questa è la tesi che io da tempo ho cercato di sviluppare in modo abbastanza sistematico nel libro scritto con Sylvie Goulard “La democrazia in Europa”.

Arrivare a un’altra politica europea, quale è quella che lei auspica, presuppone il consenso e la forza sufficiente per imporre questo cambiamento o almeno iscriverlo all’ordine del giorno della discussione. Ma il fronte politico che, per comodità, potremmo definire “europeista” e quindi più consonante con la sua impostazione è assolutamente minoritario, quando non marginale, nella maggior parte dei Paesi europei.
Io credo che l’Europa richieda leader politici nazionali che, in certi momenti chiave, siano capaci di decidere lucidamente di sacrificare il proprio interesse elettorale (attenzione: non l’interesse di lungo periodo del proprio Paese!) al conseguimento di un interesse generale.

Helmut Kohl, molto convinto della necessità per l’Europa e per la Germania che l’unificazione tedesca fosse accompagnata dalla creazione della moneta unica, perse le elezioni nel 1998 difendendo appunto il progetto di moneta unica contro il suo avversario Gerhard Schröder che invece le vinse cavalcando l’onda emotiva dei tedeschi che non volevano abbandonare il loro adorato marco. Se Kohl, allora cancelliere, si fosse messo al vento di quell’onda, oggi l’Europa non avrebbe l’euro. A sua volta, nel 2005, Schröder perse le elezioni dopo avere, da cancelliere, adottato “Agenda 2010”, un piano di riforme molto avversato che però pose le basi per lunghi anni di crescita duratura.

Robert Schuman, con l’atto secondo me più importante di tutta la storia dell’integrazione europea – la famosa “Dichiarazione Schuman” del 9 maggio 1950 – compì un passo totalmente incompatibile con le logiche attuali della ricerca del consenso, e ancor più con una verifica diretta del consenso popolare su decisioni così fondamentali. Proviamo a pensare quale esito avrebbe avuto, in particolare in Francia e in Germania, a soli cinque anni dalla fine della guerra, un ipotetico referendum popolare sulla “Dichiarazione Schuman”, e la sua traduzione nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.

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