Ci sono turbolenze a volte ben più potenti di quelle ai quali sono abituati i piloti ed in genere il personale di una compagnia aerea. Questa volta le perturbazioni non sono di natura metereologica ma di natura salariale e a farne le spese non sono piloti e personale di bordo ma i dirigenti di una compagnia aerea di bandiera. Le immagini di Xavier Broseta, direttore delle risorse umane di Air France e di Pierre Plissonier, direttore di Air France Orly, mentre fuggono con le vesti lacerate, braccati dalla folla inferocita di dipendenti furiosi per i previsti licenziamenti hanno fatto il giro del mondo. La violenza della reazione dei manifestanti (sette feriti di cui uno grave) nasconde in realtà una violenza ben peggiore. Nel momento in cui i manifestanti hanno fatto irruzione nella sede di Air France presso l’aeroporto Roissy-Charles De Gaulle, il Comitato Centrale d’Impresa della compagnia di bandiera francese s’apprestava a varare il cosiddetto “piano B” per rilanciare la competitività di Air France. Tradotto in cifre, tagliare 2.900 posti di lavoro tra 2016 e 2017. Un colpo di mannaia che ha scioccato anche tutta l’opinione pubblica (basti ricordare che il 17% di Air France è ancora in mani pubbliche). Ma lo Stato, in questo caso “Stato azionista”, in questa vicenda si defila e lascia che la direzione (saggiamente?) se la sbrighi da sola. Che, impossibilitata a raggiungere un accordo con le parti, decide di dare il ben servito a ben 300 piloti, 1.900 tra hostess e steward e 700 addetti al personale di terra. Si prevedono anche “partenze volontarie” con tanto di incentivi per addolcire la pillola che resta pero’ amarissima. Ma come si è arrivati ad una decisione tanto eclatante? E lo stato francese, detentore del 17% di Air France, dov’è?
Il “piano B” della compagnia, che prevede 2.900 tagli, ha scioccato l’opinione pubblica
Dal Piano “Transform 2015” al “Piano B”
Secondo la direzione di Air France gravi colpe ricadono sul Sindacato Nazionale dei Piloti di Linea (Snpl), che in questa vicenda ha giocato un ruolo di primo piano, comportandosi come una sorta di corpo estraneo rispetto ad altre categorie di lavoratori che hanno invece fatto passi distensivi in direzione della compagnia. Investita in pieno dalla crisi nel 2008 , Air France lancia un primo piano di soppressione di circa 3.000 posti di lavoro, senza però licenziamenti in vista ma con il semplice gelo delle assunzioni. La misura però è insufficiente e non aiuta la compagnia a migliorare la situazione generale. In realtà, è solo l’inizio di un lento ed inesorabile declino.
«Non ho un tesoro nascosto né una bacchetta magica». Quando il presidente d’Air France Alexandre de Juniac prende le redini della compagnia nel 2011 non puo’ nascondere la grave situazione finanziaria in cui versa Air France. De Juniac lancia allora il piano “Transform 2015” per rilanciare le sorti della compagnia di bandiera francese. Il piano prevede un aumento progressivo della produttività del 20% tra 2011 e 2014. Tutti sono d’accordo ma alla fine del 2014 i conti non tornano. Non tutte le categorie di lavoratori riescono infatti a raggiungere l’obbiettivo prefissato. Solo il personale di terra (+23%) ed il personale di bordo (20%) si comportano da alunni modello mentre i piloti restano fermi al palo (13%). Da questo momento in poi la relazione con i piloti e con il sindacato che li rappresenta si deteriora a vista d’occhio.
Dal mancato raggiungimento degli obiettivi del piano “Transform 2015” , la relazione con i piloti e con il sindacato che li rappresenta si deteriora a vista d’occhio
Anzi, nel settembre del 2014 tutti i nodi giungono al pettine: esplode il lunghissimo sciopero dei piloti di Air France. Ma cosa chiedono i piloti? Reclamano un contratto unico alle condizioni di Air France per poter lavorare anche su Transavia, filiale low cost della compagnia che intanto s’impone nei cieli d’Europa. Per la direzione della compagnia però si tratta di una rivendicazione inaccettabile. Si va dunque al muro contro muro. Risultato: il più lungo sciopero della storia della compagnia, 500 milioni di euro in fumo per una compagnia che già non navigava precisamente nell’oro. Ancora una volta, il dito è puntato contro il Sindacato Nazionale dei Piloti di Linea (Snpl), alla sua linea oltranzista. Contro il sindacato la direzione intraprende addirittura una procedura giudiziaria per non aver messo in opera gli impegni del piano “Transform 2015”. Il Tribunale di Bobigny pero’ si dichiara incompetente e l’affaire scivola nel dimenticatoio.
Nel settembre 2014 i piloti Air France reclamavano un contratto unico alle condizioni di Air France per poter lavorare anche su Transavia, filiale low cost della compagnia. Fu il più lungo sciopero della storia di Air France
Alla fine del 2014 la direzione però ci riprova e, per evitare un altro muro contro muro, rilancia una nuovo piano, il “Perform 2020”. Anche questa volta si punta a un aumento progressivo della produttività del 17% entro il 2020. Ma anche questa volta i piloti puntano i piedi. Cosa chiedono questa volta? Propongono un aumento della produttività del 4% annuo per tre anni, ovvero il 12% in totale. Siamo lontani però dal 17% chiesti dalla compagnia. E cosi quest’ultima s’irrigidisce e passa alle maniere forti. Presenta in consiglio d’amministrazione non più un piano “Perform 2020” ma un “piano B” che prevede il ritiro di 14 velivoli entro il 2017, la chiusura di cinque linee di lunga tratta e la soppresisone di quasi 3.000 posti di lavoro.
In cambio della produttività non si è paventata alcuna evoluzione delle condizioni di lavoro. Una via che invece era stata seguita dalla compagnia gemella Klm
La crisi di Air France sembra destinata ad avere un epilogo molto simile a quella d’Alitalia. Tante parole, tante chiacchiere, anche dai politici. Ma la massima resta la stessa: evolvere o sparire
Che il sindacato dei piloti abbia tirato un po’ troppo la corda? Sarà ma la verità è che Air France non è riuscita a comportarsi come la sua controparte gemella, l’olandese Klm, siglando un importante accordo coi suoi 2.800 piloti per fare evolvere le loro condizioni di lavoro. Insomma non c’è stato un do ut des ed anche la posizione dei piloti s’è irrigidita perché in cambio della produttività non si è paventata alcuna evoluzione delle condizioni di lavoro. E poi c’è un altro problema, non certo secondario. Ovvero i costi. Se anche i piloti d’Air France non vengono pagati più dei loro omologhi europei, rispetto però a quest’ultimi costano molto, ma molto di più. A questo va aggiunto che Adp (Aeroporti di Parigi), che ogni anno fa guadagnare tantissimo allo stato francese azionista, ha fatto di Roissy-Charles De Gaulle il secondo aeroporto più caro d’Europa dopo Heathrow: le sue tariffe aumentano costantemente, in 10 anni sono salite del 45,9% (mentre ad esempio quelle dell’aeroporto di Schipol ad Amsterdan sono scese del 7 per cento). Se a questo si aggiunge il silenzio dello Stato azionista, che in tutta questa faccenda è rimasto ostinatamente silenzioso perché in realtà ci è dentro fino al collo, si capisce perché la crisi di Air France sembra destinata ad avere un epilogo molto simile a quella d’Alitalia. Tante parole, tante chiacchiere, anche dai politici. Ma la massima resta la stessa: evolvere o sparire.
@marco_cesario