Pensioni, invalidità, famiglia, disoccupazione, casa. La spesa sociale italiana è un castello sgangherato, sbilanciato sulla parte più anziana della popolazione, sempre più numerosa rispetto ai nuovi nati. La spesa per le pensioni in Italia ammonta al 17% del Pil, tre punti in più della media europea. «Oggi un giovane ha sulle spalle il peso di classi di lavoratori che invecchiano e occupano posti che storicamente sarebbero spettati a loro», spiega Michele Tiraboschi, coordinatore scientifico del centro studi sul lavoro Adapt, che ha da poco pubblicato un “libro verde” sul welfare. «Come mostra l’ultima legge di stabilità, quella dei giovani è una categoria che in Italia non viene particolarmente considerata».
Professore, qual è oggi lo stato di salute del sistema di welfare italiano?
Il sistema di welfare oggi è in difficoltà sotto diversi punti di vista. I cambiamenti demografici ci consegnano una situazione in cui la popolazione italiana è invecchiata (l’età media è vicina ai 45 anni) e con essa l’età dei lavoratori. A questo si accompagnano tutte le difficoltà fisiche di una persona anziana che necessità di più cure, attenzioni e servizi dedicati. Allo stesso tempo i giovani restano esclusi da un mercato del lavoro ormai saturo e questa combinazione di fattori genera una insostenibilità economica. Infatti abbiamo meno contribuenti perché i giovani sono esclusi dal mercato e abbiamo più spese perché i servizi richiesti dalla popolazione lavoratrice aumentano (pensiamo a spesa sanitaria e previdenziale, ad esempio). Questo è il problema principale.
“Abbiamo meno contribuenti perché i giovani sono esclusi dal mercato e abbiamo più spese perché i servizi richiesti dalla popolazione lavoratrice aumentano. Questo è il problema principale”
Il punto quindi è che gli anziani sono tanti?
Non solo sono tanti, ma sono in aumento, in quanto l’età media della popolazione cresce e non crescono con essa le lunghezze delle carriere. Qualcosa è stato fatto con la riforma Fornero e il passaggio al sistema contributivo ha determinato un contenimento dei costi, ma i trend demografici ci fanno dire che è necessario immaginare un sistema previdenziale che si sposi con l’aumento dell’età media della popolazione.Ma oggi esiste in Italia un welfare destinato ai giovani ?
Non sembrerebbe. Oggi un giovane ha sulle spalle il peso di classi di lavoratori che invecchiano e di conseguenza occupano posti che storicamente sarebbero spettati a loro. Si tratta di fenomeni demografici per cui non bisogna per forza incolpare qualcuno, ma è vero che, come mostra l’ultima legge di stabilità, quella dei giovani è una categoria che non viene particolarmente considerata.Il vero welfare di cui hanno bisogno i giovani, che si interessano poco della loro pensione o delle loro spese sanitarie, è nella creazione di competenze da spendere sul mercato del lavoro e di sistemi di incontro tra domanda e offerta che possano aiutarli a trovare un’occupazione. Spesso non si considera questo aspetto come una forma di welfare ma nella contemporaneità l’aspetto della formazione e soprattutto di un luogo in cui poterla ottenere e spendere diventa uno dei contenuti fondamentali delle necessità sociali di un giovane, se non il più importante.
“È necessario immaginare un sistema previdenziale che si sposi con l’aumento dell’età media della popolazione… Il vero welfare di cui hanno bisogno i giovani, che si interessano poco della loro pensione o delle loro spese sanitarie, è nella creazione di competenze da spendere sul mercato del lavoro e di sistemi di incontro tra domanda e offerta”
Com’è cambiato il welfare italiano negli anni della crisi?
Sono aumentate le spese per le politiche passive, i cosiddetti ammortizzatori sociali, a causa delle numerose crisi aziendali che il tessuto imprenditoriale italiano ha vissuto. Al contempo si è assistito ad una diminuzione delle spese in politiche attive, già particolarmente basse, e delle spese per la sanità. È chiaro che un momento di ristrettezza economica non ha potuto che rendere manifeste difficoltà strutturali.
Il Jobs Act ha modificato lo sbilanciamento sulle politiche passive?
L’assenza nel nostro Paese di un sistema di politiche attive del lavoro è uno dei problemi principali. Si parla ormai tanto di questo tema ma si agisce poco, lo stesso decreto del Jobs Act rimanda il problema attraverso la costruzione di una nuova agenzia nazionale, l’Anpal.
Nel mercato del lavoro di oggi, una delle più grandi forme di tutele e di welfare è l’aiuto nella creazione di competenze, nel loro aggiornamento e nella capacità di spenderle per potersi ricollocare professionalmente. L’instabilità e l’imprevedibilità dei sistemi produttivi può essere superata solo grazie a un efficace sistema di politiche attive che entri in gioco nei momenti di transizione occupazionale che caratterizzeranno sempre di più il lavoratore del futuro.
“Durante la crisi sono aumentate le spese per le politiche passive, i cosiddetti ammortizzatori sociali, a causa delle numerose crisi aziendali che il tessuto imprenditoriale italiano ha vissuto. Al contempo si è assistito ad una diminuzione delle spese in politiche attive”
Il lavoratore che il sistema di welfare italiano protegge è quasi unicamente quello dipendente, però.
Il sistema di welfare italiano è ancora legato al modello del lavoro subordinato classico, al posto fisso per tutta la vita. Il welfare è in questo senso un contraltare allo squilibrio dei poteri tra impresa e lavoratore, offrendo una serie di tutele che possano tentare di riequilibrare il conflitto.
Tutto questo esclude oggi molto del lavoro contemporaneo, fatto da figure non ordinarie, che si muovono nell’area grigia tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Se non si tutelano questi lavoratori non si potrà mai creare un sistema di welfare sostenibile, basti pensare al grosso numero di lavoratori parasubordinati che stanno massicciamente uscendo dalla gestione separata Inps (-8,6% nel 2014): questo porterà a un collasso e una non sostenibilità economica dell’istituto stesso in poco tempo.
A ciò si aggiunga che la categoria della produttività, centrale se vogliamo creare nuova occupazione senza che questa sia unicamente un costo, è spesso non considerata come un fattore che incide sulle spese di welfare. Al contrario molti dei servizi di welfare richiesti dai lavoratori oggi potrebbero essere legati ad aumenti della produttività.
“Una legge di stabilità in deficit deve quanto meno assicurarsi che le proprie conseguenze possano portare a un aumento dei tassi di occupazione. Per questo motivo il reddito minimo garantito, se diffuso senza criterio e senza meccanismi che incentivano la ricerca di posti di lavoro, oltre a non essere sostenibile economicamente, porterebbe a fenomeni di assistenzialismo di cui non sentiamo la mancanza e di cui non abbiamo bisogno”
La legge di stabilità però pare che abbia destinato 600milioni di euro alle fasce più povere.
In Italia oltre il 28% della popolazione è a rischio povertà, in Europa la media è il 25%. È un numero aggravato duramente dalla crisi economica. Le norme della legge di stabilità non sono ancora chiare, ma è necessario fare un discorso qualitativo più che quantitativo, soprattutto in un momento di difficoltà dal punto di vista delle risorse pubbliche.
Una legge di stabilità in deficit deve quanto meno assicurarsi che le proprie conseguenze possano portare a un aumento dei tassi di occupazione. Per questo motivo il reddito minimo garantito, se diffuso senza criterio e senza meccanismi che incentivano la ricerca di posti di lavoro, oltre a non essere sostenibile economicamente, porterebbe a fenomeni di assistenzialismo di cui non sentiamo la mancanza e di cui non abbiamo bisogno. Giusto invece individuare una fascia ristretta di popolazione già in gravi condizioni di povertà e aiutarla a creare le condizioni per cui essa possa tornare ad avere un posto di lavoro e con esso un reddito.