Diyarbakır – «Ci aspettavamo di passare lo sbarramento, ma speravamo anche di superare il 13 per cento. Poi, alla stessa ora, allo stesso momento, tutte le televisioni e i giornali hanno iniziato a dare le stesse notizie prima del comitato elettorale centrale. La Turchia non è mai stata un esempio di democrazia».
Nella sede centrale del partito Hdp a Diyarbakır, il co-presidente Ömer Önen commenta così il risultato delle elezioni del 1° novembre in Turchia. L’Hdp è stato il primo partito filo-curdo a portare rappresentanti delle proprie liste in parlamento, ben 80 alle elezioni dello scorso 7 giugno.
Da allora, mesi di violenza e terrorismo hanno influito profondamente sull’elettorato turco e sul clima politico del paese. L’episodio più grave, le due bombe esplose durante una manifestazione sindacale ad Ankara il 10 ottobre scorso, ha causato 102 morti e almeno 400 feriti. Nelle settimane precedenti, l’esercito turco aveva ripreso gli attacchi militari contro la guerriglia del Pkk nelle regioni curde.
L’Hdp, nonostante la decisione di sospendere i comizi e le manifestazioni dopo le bombe di Ankara, sperava di migliorare ancora il proprio risultato di giugno. Ma le aspettative per la nuova tornata elettorale – resa necessaria dal mancato accordo su un governo di coalizione – sono state deluse.
Mentre l’Akp di Erdoğan torna ancora una volta alla maggioranza assoluta dei seggi con oltre il 49 per cento dei voti, l’Hdp si è fermato al 10,5 per cento, contro il 13,1 delle precedenti elezioni, e ha perso oltre un milione di voti.
La delusione dell’Hdp si legge bene sui volti seri e preoccupati al quartier generale di Diyarbakır, dove intorno alle 22.30 del 1° novembre quasi tutti i presenti sono riuniti in una piccola sala, davanti al televisore trasmette il discorso dei leader del partito, Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ.
Poco prima, nel grande spiazzo triangolare di cemento davanti alla sede, la polizia ha disperso con cannoni ad acqua e lacrimogeni un piccolo gruppo di persone che si era riunito per protestare dopo la pubblicazione dei primi risultati.
Il co-presidente Önen, 42 anni, elenca le irregolarità che avrebbero viziato il voto: «A Diyarbakır, nel quartiere di Sur, le forze speciali della polizia giravano a volto coperto dentro le scuole [dove si votava]. A Lice, hanno bloccato la strada, la gente che andava a votare, e non l’hanno fatta passare. La stessa cosa è successa a Dicle. A Çınar, un altro distretto, hanno fatto pressione sulla gente perché non andasse ai seggi».
Accuse simili sono state riprese anche dalla stampa turca meno favorevole all’Akp, come il Today’s Zaman, e dal leader nazionale Demirtaş nella conferenza stampa dopo il voto. Ma ora l’Hdp deve comunque fare i conti con il risultato ufficiale e con il passaggio, nell’arco di poche ore, da un’atmosfera di festa a un’amara disillusione.
Poco dopo la chiusura dei seggi, alle 17 ora locale (le 15 in Italia), le strade del centro di Diyarbakır erano piene di auto. Dai finestrini si sporgevano ragazzi che sventolavano le bandiere dell’Hdp e scandivano la sigla del partito. Man mano che passavano i minuti, però, i risultati dai seggi mostravano i voti per l’Hdp sempre più in calo, fino ad avvicinarsi pericolosamente alla soglia di sbarramento del 10 per cento – la più alta del mondo – che avrebbe tenuto fuori i rappresentanti filo-curdi dalla Grande Assemblea Nazionale.
Alla fine, il disastro elettorale è stato evitato per circa 180 mila voti su un totale di 4,9 milioni. Mentre a giugno la gente era scesa in strada a festeggiare, così nella sera del 1° novembre il traffico è scomparso molto in fretta per lasciare spazio al silenzio.
«Il 99 per cento qui vota per l’Hdp»
Era un risultato difficile da prevedere, a guardare la giornata nei seggi della provincia di Diyarbakır. Nei dintorni di Silvan, una città di 40 mila abitanti distante un’ora di strada dal capoluogo, il supporto per l’Hdp era unanime e la gente non aveva paura di mostrarlo.
Verso le due del pomeriggio, in uno dei due seggi situati nella scuola del villaggio di Demirkuyu (Derik-Mukuré in curdo), le operazioni di voto si potevano già dire concluse. In questa piccola località in cui tutti si conoscono, e sanno chi verrà o non verrà a votare, solo sei persone iscritte nella lista elettorale non si sono ancora presentate.
«Il 99 per cento qui vota per l’Hdp. E se qualcuno vota qualcosa di diverso, lo fa per soldi o per paura», dice Ahmet Bozutmak, 61 anni. «Se non rubano i nostri voti, avremo cento deputati e il processo di pace potrà continuare. Ma nel caso in cui l’Akp arrivi alla maggioranza, avremo ancora la guerra». Tutti i presenti al seggio, una quindicina di persone, sono concordi: e i segni della “guerra” a cui alludono si vedono dal cortile della scuola, sui fianchi delle vicine montagne.
Qui, raccontano, gli elicotteri dell’esercito hanno bombardato i boschi per colpire le basi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), l’organizzazione terroristica secondo Stati Uniti e Unione Europea che conduce azioni armate contro lo stato turco da oltre trent’anni e che in queste zone ha il suo sostegno più ampio. I presenti al seggio dicono che, nel villaggio, tutti hanno almeno un parente che ha lasciato le loro case per andare sulle montagne.
Nelle ultime settimane la situazione è più tranquilla, ma non è solo la natura a portare i segni del recente conflitto. Dall’altra parte della strada rispetto alla scuola, alcuni camion che trasportavano cemento verso la diga in costruzione poco più a monte sono stati messi fuori uso e bruciati dai guerriglieri del Pkk.
In una zona dove la robusta crescita economica dell’ultimo decennio ha portato a un boom edilizio, lo spiazzo vicino alla striscia di asfalto – anche questa nuova e costruita per permettere ai mezzi pesanti l’accesso alla diga – può essere scambiato a prima vista per un parcheggio temporaneo o un’area di sosta. A guardar meglio, però, si vedono le motrici bruciate e la plastica degli pneumatici completamente sciolta. I camion restano abbandonati ai margini della strada, come di guardia all’entrata del villaggio.
Una decina di chilometri verso sudest, a Malabadi, i seggi sono in una scuola elementare dall’aspetto dimesso e su un solo piano, a poca distanza dalla strada che porta al ponte millenario che dà il nome alla cittadina. Ci si aspetta un’affluenza del 90 per cento. «Ogni voto vorrà dire un’arma in meno», dice il sindaco, Kasim Turan. «Una vittoria di Erdoğan sarebbe la fine per noi, perché sterminerebbe i curdi. Ci aspettiamo che il dittatore venga rovesciato e che termini il bagno di sangue».
Nei piccoli villaggi, abitati da una popolazione molto religiosa e tradizionalista, quello che sembra aver screditato l’attuale governo di Erdoğan agli occhi di molti sono state le brutalità delle forze di sicurezza – spesso esibite perfino in video caricati su Internet – contro i guerriglieri del Pkk catturati e contro le tombe, alcune delle quali sono state distrutte dai pesanti bombardamenti aerei cominciati ad agosto.
Hasibe Odurveren, una donna di 45 anni che è al seggio di Malabadi come rappresentante di lista per l’Hdp, mostra lo sfondo del suo cellulare. È un’immagine di un ragazzo in quella che sembra una vecchia foto.
Si chiama Burhen Deniz ed è suo fratello; la donna, che porta il velo e dimostra meno dei suoi 45 anni, racconta che vent’anni fa Burhen si unì al Pkk dopo essere stato arrestato più volte e che venne ferito nel 1993 in combattimento. Hasibe dice che da allora la sua famiglia non ha saputo più niente di lui e che continua ancora oggi a cercare i suoi resti. La speranza che sia ancora vivo li ha abbandonati molto tempo fa.
Nelle zone più interne, si ha l’impressione che dopo la dimostrazione di forza militare di quest’estate il governo Erdoğan abbia deciso di allentare la presa. In molti seggi rurali, come a Demirkuyu, la polizia non si è fatta vedere per tutta la giornata («Non gli abbiamo detto noi di non venire», dicono con aria semiseria i locali) mentre in altri, come a Malabadi, ha fatto solo un paio di visite nel corso della giornata.
A Silvan, la città più popolosa dell’area con circa 40 mila abitanti, la situazione ai seggi è a volte più tesa. In una scuola elementare della periferia, uomini armati di mitra stazionano a pochi metri dai cancelli di ingresso. Mentre stiamo visitando la struttura, un militare entra con l’arma a tracolla e cammina per il piano terreno, senza rivolgere parola a nessuno e violando il regolamento che impone una distanza minima di quindici metri dall’urna. «È una provocazione, ma a noi non interessa», dice Vedat, rappresentante di lista per l’Hdp.
Nella città, alcune strade sono ancora chiuse da barricate sovrastate dai teli posizionati contro i cecchini. Come in molte altre località del Kurdistan, anche a Silvan gruppi di guerriglieri curdi hanno proclamato l’autogoverno dopo la fine del cessate il fuoco tra il Pkk e il governo turco dopo oltre due anni e mezzo di negoziati, nell’escalation del conflitto tra la fine di luglio e i primi di agosto.
Gli “autogoverni” sono stati spesso portati avanti da gruppi di giovani che non sono formalmente affiliati al Pkk, ma che sono molto vicini. Si distinguono per la diversa strategia e per il maggior ricorso alla violenza, tanto da essersi guadagnati il soprannome di “generazione Mad Max”.
Gran parte di queste sacche di ribellione sono state eliminate dall’intervento delle forze di sicurezza, con combattimenti che hanno causato decine di morti, ma a Silvan un’area della città in cui vivono migliaia di persone è ancora fuori dal controllo delle autorità turche. L’Hdp si trova nella difficile situazione di dover mediare tra le frange più violente del movimento curdo, da un lato, e il governo di Ankara con i suoi metodi spesso brutali dall’altro.
Dal punto di vista elettorale, le difficoltà sembrano dare i loro frutti: alla sede di Silvan del partito, un’ora dopo la chiusura delle urne, il documento ufficiale di un seggio cittadino registra 139 votanti, con 138 voti per l’Hdp e una scheda nulla.
La questione si fa più complessa nei centri urbani più grandi, dove il sostegno per l’Akp non sembra essere scomparso: a Diyarbakır l’Hdp ha finito per perdere un deputato dei dieci eletti a giugno. Molti elettori si devono essere convinti che un voto per l’Akp – che comunque ha sempre goduto di un certo sostegno tra i curdi, specie nelle zone più tradizionaliste – sia l’unico che nelle condizioni attuali può assicurare la stabilità nel paese.
Nella sera delle elezioni, il futuro del Kurdistan rimane incerto, ma la speranza sembra ancora viva: «Prima del 7 giugno, quando abbiamo iniziato, abbiamo sempre usato un linguaggio di pace e fratellanza. Anche questa volta useremo questo linguaggio, perché è la richiesta che viene dal popolo», dice Ömer Önen nella piccola stanza del quartier generale. «Lotteremo per un modello che gestisca la Turchia in un modo democratico».